venerdì 15 settembre 2006

MAMME FOLLI O SENZA CUORE?

Mamme folli o senza cuore?
Succede, molto raramente ma succede, che una madre possa uccidere il suo bambino, il fatto esce in cronaca e scatena una psicosi collettiva. Colpire un essere innocente e indifeso è già di per sé inaccettabile per la nostra civiltà, che poi a compiere il gesto sia la stessa madre, colei che per definizione dovrebbe invece prendersene cura, risulta anche totalmente incomprensibile. Per capire, allora, e soprattutto per allontanare il timore che a un omicidio così efferato possa di punto in bianco risolversi qualsiasi mamma, si ricorre immediatamente alla patologia psichiatrica. Medici, avvocati e giornalisti cominciano a scavare nella vita dell’omicida per scoprire il seme della follia, tutti convinti che una grave malattia mentale sia contemporaneamente causa, movente e attenuante di un simile gesto. Il binomio violenza/psicosi appare confortante per la coscienza del cittadino “normale” ma può rappresentare, per l’assassino un facile ricorso alla non punibilità, e per il malato un ingiusto pregiudizio di colpevolezza. La professoressa Isabella Merzagora Betsos, direttore della Scuola di Specializzazione di Criminologia Clinica, ci aiuterà in questa intervista a capire quale sia il limite che separa il raptus di follia dalla volontà di uccidere, e quale sia il legame tra normalità e consapevolezza delle proprie azioni.
La violenza, comunque venga agita, all’interno del nucleo familiare è qualcosa che trasgredisce profondamente non solo i diritti umani e il codice penale ma anche la fiducia nei primissimi rapporti affettivi che ciascuno di noi instaura. Ecco allora che il giudizio popolare vuole riconoscere in questi atti la mano della follia, è davvero così?
Dipende da caso a caso: spesso, ma non sempre, certi comportamenti nascono e si alimentano in un clima “ammalato” da condizioni socio-economiche disagiate, dipendenza da alcol o droga, rapporti conflittuali. Non siamo di fronte ad una patologia psichiatrica ma è l’ambiente familiare e le sue dinamiche interne che sono patologici, in queste condizioni possono trovare spazio abusi, maltrattamenti, violenze psichiche e fisiche fino all’omicidio. In taluni casi, invece, una grave forma di depressione è all’origine di un gesto fatale, è ciò che si verifica quando uno dei genitori è talmente disperato da vedere come unica via di uscita la morte. Nella sua mente malata non vede futuro nemmeno per i suoi figli (o fratelli, moglie, parenti, conviventi) tanto da ucciderli, per sottrarli al mondo e ad un destino infelice, prima di suicidarsi. In termini criminologici questi atti sono definiti “omicidio pietatis causa” o “suicidio allargato”, psicologicamente sono dettati da eccesso di amore e protezione verso i propri cari.
Quindi il collegamento tra follia e violenza non è affatto scontato. Eppure, quando una madre causa la morte del proprio bambino, il ricorso alla perizia psichiatrica è quasi immediato.
Aggressività, violenza, odio fanno parte dell’animo umano, sono pulsioni che l’uomo ha imparato a contenere grazie alla progressiva civilizzazione della società in cui vive, ma non sono certo indice di malattia. Ciò che fa la differenza è il clima culturale in cui avviene il fatto: oggi in Occidente il figlicidio è guardato con raccapriccio e sconcerto, in altre epoche e in altre culture veniva e viene ancora percepito con minor gravità.In linea generale, potremmo affermare che il neonaticidio viene commesso indifferentemente da madri sane o affette da disturbo mentale, e la storia di questi crimini lo conferma. Scopo della perizia medica è chiarire se il soggetto fosse capace di intendere o volere al momento in cui ha commesso il fatto e in relazione al fatto stesso, ovvero se si rendeva conto di ciò che stava facendo. La presenza di una malattia mentale, anche grave, ma adeguatamente trattata, non implica la non coscienza e responsabilità delle proprie azioni; viceversa una psicosi trascurata e vissuta in condizioni di degrado può fare sì che il paziente compia atti violenti, contro se stesso oppure contro altri.
D’accordo, è chiaro quanto siano importanti l’ambiente familiare e il contesto sociale nel contenere sia la follia sia l’aggressività, ma Lei parla anche di madri “sane”. Quando non vi sono disturbi evidenti, come può una madre uccidere il proprio figlio?
Intanto ci terrei a fare una premessa sull’istinto materno, che tanti danno per innato e presente in ogni donna. Gli esseri umani non sono animali: non hanno istinti ma sentimenti e raziocinio, chi commette un assassinio, infatti, non uccide per la propria sopravvivenza o per quella della sua specie. L’uomo agisce in base a ciò che ha imparato perché gli è stato insegnato, le sue azioni sono culturalmente determinate, quindi ci si può aspettare che vi sia un sentimento materno, più o meno marcato a seconda dei soggetti, ma niente di più.Per quanto riguarda l’infanticidio in assenza di storia psichiatrica esso può rientrare in una di queste tre diverse dinamiche tipicamente femminili: Medea, Munchausen per procura e negazione della gravidanza. Da ultimo bisogna anche ricordare che, quando si tratta di disturbi psicologici o sofferenze nei rapporti interpersonali, la famiglia è sempre l’ultima a sapere e spesso rifiuta anche di riconoscere e affrontare questi disagi per non mettersi in discussione. Questo concetto sarà più chiaro dalla descrizione delle sindromi citate.
Partiamo con la storia di Medea che fa parte dei miti della letteratura greca antica, non è troppo lontana da noi?
Il tema è antichissimo, risale probabilmente al VI° secolo a.C. e se conoscono tante versioni, leggermente diverse tra loro, riportate da numerosi autori, quello che è interessante è però notare quanto sia ancora attuale. Medea sopprime i propri figli per vendicarsi del coniuge, per farlo soffrire; l’odio verso il partner viene quindi indirizzato verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell’unione e anche un antagonista meno temibile del partner stesso.Medea è un archetipo di donna in conflitto con il marito, i motivi di tale conflitto possono essere i più svariati: gelosia, invidia, orgoglio ferito, l’essere trascurata, ma l’esito è sempre la trasformazione dell’amore verso il coniuge in odio. Dopo questo viraggio dei sentimenti, il figlio diventa strumento per creare sofferenza o attirare attenzione da parte di colui che è il vero oggetto dell’ostilità materna. A parziale conferma, questi atti vengono spesso commessi subito dopo un evento scatenante, magari l’ennesima lite con il coniuge.
La sindrome di Munchausen per procura, invece, appare in tempi decisamente più recenti…
Sì, potremmo dire che è la versione moderna del figlicidio, resa possibile dalla grande disponibilità di strumenti diagnostici e terapeutici; un paradosso perché proprio quei presidi nati per garantire la salute finiscono per trasformarsi in armi nocive o mortali. Andiamo con ordine: l’espressione “sindrome di Munchausen” compare per la prima volta nel 1951 per descrivere quelle persone che si rivolgono insistentemente e inutilmente a medici e ospedali, riferendo continui quanto inesistenti disturbi, fino a riportare conseguenze dannose dai ripetuti accertamenti o, addirittura, dai molteplici interventi chirurgici. Alla triste applicazione ai bambini si giunge circa 20 anni dopo con la definizione di Meadow (1977) della “sindrome di Munchausen per procura”: situazione in cui i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri figli non hanno, o procurando loro sintomi e disturbi (per esempio somministrando sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo e il responsabile è la madre, cioè la persona a cui sono affidate le cure del bambino e che, per questo, si trova nella posizione migliore per simularne la malattia. Si ritiene che la motivazione di tale comportamento sia il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato.Questo fenomeno è sempre più diffuso o, probabilmente, più osservato da quando lo si è riconosciuto come eccesso d’amore che cade nella perversione. Contrariamente a quanto si penserebbe, infatti, queste madri sono sollecite, premurose, costantemente presenti e molto attente nel prendersi cura della salute dei figli. Agli occhi di tutti hanno un comportamento esemplare, inoltre sono amichevoli, cordiali, collaboranti e riconoscenti con il personale di assistenza, tutti atteggiamenti che, uniti ad ansia e insistenza, incoraggiano i medici ad approfondire gli accertamenti e distolgono anche solo il sospetto che si possa trattare di madri che, invece, maltrattano subdolamente i figli.
La negazione della gravidanza: anche qui, nonostante non manchino fatti di cronaca in proposito, appare alla maggioranza di noi quanto meno assurdo che si riesca a nascondere una gravidanza.
Certo perché i sintomi di una gravidanza sono ben evidenti, anche per chi non abbia mai avuto figli, ma alla luce di certi avvenimenti si deve riconoscere che non è sempre così. Mi spiego: analogamente al noto fenomeno della gravidanza isterica (pseudociesi), in cui un desiderio psichico condiziona il corpo tanto da indurre la manifestazioni tipiche della gravidanza, esiste anche il fenomeno opposto, ossia la negazione psicologica della gravidanza. La necessità di negare può essere così intensa da influenzare le manifestazioni biologiche, per cui molti dei sintomi possono essere assenti; in aggiunta la donna ricorre alla razionalizzazione, quale meccanismo di difesa, per spiegare in altro modo i sintomi fisici che invece avverte. La scoperta della gravidanza può avvenire accidentalmente, per esempio dopo una radiografia disposta perché la paziente lamenta dolori di schiena, oppure la negazione può coprire tutto il periodo della gestazione fino al parto. In quest’ultimo caso il parto non di rado avviene in una toilette, poiché la madre viene colta improvvisamente da inspiegabili dolori addominali, ed è caratterizzato da un periodo espulsivo molto rapido. Modalità così poco ortodosse unite al fatto che la nascita è un evento inatteso, possono far capire come la madre venga travolta da uno sconcerto emotivo che le impedisce di prestare le dovute cure al neonato, fino a causarne la morte.
A conclusione e per rassicurare ogni mamma, vale la pena ricordare che le situazioni particolari qui descritte sono estremamente rare, vero professoressa?
Innanzi tutto sono rarissimi gli omicidi delle donne: le statistiche mostrano chiaramente che gli assassini sono quasi sempre giovani uomini, mi pare doveroso sottolinearlo per correttezza e completezza dell’informazione. La casistica femminile riguarda, nella maggior parte dei casi, il figlicidio, tuttavia i profili descritti sono solo alcuni di quelli possibili. Diciamo che nel contesto di questa intervista si sono approfonditi i casi più “spinosi”, quelli che sono più difficili da prevedere, scoprire e comprendere. Nulla toglie, però, che situazioni di disagio familiare, o della figura materna, si risolvano con il passare del tempo, con la richiesta di aiuto medico o, comunque, persistano senza mai degenerare nel delitto. In parole molto semplici ciascuno di noi ha le sue stranezze e i suoi problemi, senza per questo essere un omicida potenziale.
Elisa Lucchesini
Fonti “Madri che uccidono” professoressa Isabella Merzagora Betsos VII Congresso Nazionale SOPSI (Roma febbraio 2002)

LA SINDROME DA ALIENAZIONE GENITORIALE

La sindrome di alienazione genitoriale

Guglielmo Gulotta* Professore universitario di "Psicologia Giuridica", Università degli Studi di Torino.
1. La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione
2. Aspetti legislativi e ripercussioni sul minore
3. Criteri per una diagnosi differenziale
4. Fattori facilitanti lo sviluppo della sindrome
5. Conclusioni.
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1. La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione
Si è affacciato da poco nella letteratura psicologica italiana il parametro concettuale della sindrome di alienazione genitoriale (Parental Alienation Syndrome - PAS). Così definita dallo psicologo forense Richard Gardner (1985; 1987; 1989; 1992), è stata oggetto di interesse della sezione di diritto di famiglia dell'Ordine degli avvocati degli Stati Uniti (Clawar, Rivlin, 1991) e di recente rassegna da parte dell'autorevole American Journal of Forensic Psychology (Rand, 1997a; 1997b).
Questa sindrome può essere definita come il comportamento di uno o più figli che nel contesto del conflitto intergenitoriale diventa ipercritico e denigratore nei confronti di uno dei genitori perché l'altro lo ha influenzato in questo senso indottrinandolo adeguatamente . Alcuni autori (Clawar, Rivlin, 1991) parlano anche di "bambini programmati" o ai quali è stato effettuato il "lavaggio del cervello" (brainwashed children).
La sindrome nella letteratura esistente viene descritta in base alle tecniche per produrla, alle motivazioni dei genitori per attuarla, alle caratteristiche dei genitori che la producono, alle caratteristiche dei bambini che li rendono più o meno plasmabili e agli effetti che produce. I risultati teorici ed empirici in materia sono sintetizzati con alcuni esempi nella tabella di pagina 36.

2. Aspetti legislativi e ripercussioni sul minore
C'è da scommettere che per la sua pregnanza l’utilizzazione di questa sindrome avrà fortuna nelle aule giudiziarie, anche perché l’Italia si rifà alla Convenzione Europea sui Diritti dei Minori del Consiglio d’Europa. Questo documento imporrà ai magistrati di ascoltare i minorenni in tutte le procedure familiari giudiziarie che li coinvolgono, in particolare nel caso di separazione e divorzio dei genitori, mentre l’art. 12 delle Nazioni Unite parlava di " possibilità * di essere ascoltati". Il minore dovrà essere informato di tutto ciò che lo riguarda, avrà il diritto di esprimere il suo parere e conoscere le possibili conseguenze delle sue opinioni. Eserciterà queste facoltà da solo o tramite qualcuno che lo rappresenta "in considerazione anche della sua età e della sua capacità di comprensione dei fatti".
In Italia la legge sulla separazione del 1970, modificata nel 1987, lascia al magistrato la possibilità di ascoltare il minorenne solo "qualora fosse assolutamente necessario anche in considerazione della sua età" (art. 4 c. 8). Insomma il minore non viene quasi mai sentito, se non in presenza di una perizia di carattere psicologico per cui egli viene ascoltato da un assistente sociale o da uno psicologo, ma il suo parere non ha assolutamente valore giuridico. Con le recenti novità legislative, il bambino non è più solamente oggetto della separazione e del divorzio, ma diventa soggetto attivo potendo esprimere un parere circa le cause del conflitto familiare e soprattutto sulla persona con cui preferirebbe stare.
Se l'opinione del minore diventerà rilevante, il coniuge sfavorito tenderà ad attribuire la preferenza del figlio alla "programmazione" del genitore scelto.
Così, chi avrà il compito di investigare per diagnosticare questa sindrome dovrà rendersi conto che essa non è stata "scoperta" come si scopre una malattia, ma costruita ed in un certo senso "inventata" come la sindrome del bambino maltrattato (Gulotta, 1995):
a) un fenomeno , nella fattispecie quello delle percosse e dei maltrattamenti a scopo educativo, da sempre accettato e considerato legittimo, viene rilevato, studiato e classificato da alcuni osservatori sociali (con riferimento a propri valori e parametri): in questo caso, alcuni radiologi e pediatri ritennero che un quadro caratterizzato da frattura e rifrattura in età pediatrica fosse probabilmente causato volontariamente e definirono questa condizione - come se si trattasse di una malattia - "sindrome del bambino maltrattato";
b) gruppi di pressione, come i mass media, sensibilizzati dagli osservatori sociali, si appropriano del fenomeno diagnosticato e definito drammatizzando- lo, descrivendolo e documentando casi particolarmente emblematici;
c) l’opinione pubblica inizia a percepire il fenomeno come problema e comincia a chiedere che si provveda per risolverlo;
d) organizzazioni scientifiche e/o professionali segnalano la grande ricorsività del fenomeno documentandolo statisticamente e prospettando soluzioni di prevenzione e trattamento;
e) agenzie di potere, spesso politico, offrono mezzi materiali ed economici per arginare e risolvere il problema;
f) il fenomeno viene amplificato rispetto alla sua reale portata:
- la drammatizzazione dei fatti porta per effetto della euristica della disponibilità (Nisbett, Ross, 1989) a considerare più frequenti eventi che sono rimasti più impressi nella memoria;
- l’ambiguità del fenomeno (quanti scapaccioni fanno un bambino maltrattato? dove finisce l' uso dei mezzi di correzione e quando inizia l' abuso ?) consente di far rientrare a discrezione nel problema anche eventi ambigui, per via della tendenza a preferire falsi positivi piuttosto che falsi negativi;
- la divulgazione di statistiche fa sentire il deviante (in questo caso il vero genitore maltrattante) come parte di una porzione significativa dell!
Bisogna invece evitare, in questa materia, di reificare delle metafore ritenendo che il "bambino alienato" abbia una sorta di malattia trasmessagli dal genitore e che, ogni qualvolta siano presenti critiche nei confronti di un genitore da parte del figlio, questi sia vittima della sindrome in questione.

3. Criteri per una diagnosi differenziale
Intanto è necessario stabilire che cosa non sia l'alienazione genitoriale: in tutte le famiglie, anche quelle intatte, si stabiliscono spesso delle alleanze talvolta spontanee, talvolta provocate ed in alcuni casi anche collusive (Willi, 1993) e spesso esistono delle preferenze dei figli verso uno dei genitori anche prima dell'insorgere del conflitto coniugale. I casi di conflitto intra ed interfamiliare (cioè all'interno della famiglia di origine e, successivamente, tra le eventuali nuove famiglie) che precedono, accompagnano e conseguono la separazione o il divorzio e le alleanze in specie con i figli sono comunque ancor più presenti perché possono servire a sostenere, influenzare, ricattare, ostacolare, riavvicinare.
Un'altra questione da tener presente è che tutta l'educazione dei figli consiste nell'influenzarli, nell'indirizzarli nella selezione dei valori e delle scelte di valutazione degli stessi, nelle diagnosi interpersonali, nell'adeguamento alle regole. La famiglia, inoltre, come insieme strutturato, tende a ricostruire continuamente la realtà in ordine alle proprie esigenze: quando essa si disgrega, è stato riscontrato da numerose ricerche empiriche (si veda Gius, Zamperini, 1995, per una rassegna) che i partner utilizzano una serie di attribuzioni di responsabilità che distorcono i dati reali al servizio della propria identità e della propria affermata correttezza o quantomeno limitazione di responsabilità in caso di eventi negativi.
Indipendentemente dalle accuse - spesso volutamente esagerate - che i partners in conflitto si scagliano nei processi per separazione personale con addebito, quasi tutti i separandi fanno attribuzioni di tipo self-serving ai danni del coniuge: la realtà che il genitore inculca nel figlio è spesso la sua reale realtà soggettiva, ricostruita per giustificare e per giustificarsi (Fincham et al., 1990; Harvey et al., 1992). Se questo è così comune, come distinguerlo da ciò che artatamente il genitore dice e fa per "alienare" il figlio? Dove finisce l'influenza educativa e dove inizia la programmazione? Quando ci troviamo di fronte ad una
preferenza, per così dire, "naturale", e quando invece essa è condizionata?
Proviamo ad individuare alcuni criteri distintivi di quest'ultima (oltre alle indicazioni riportate nella tabella successiva):
- il figlio cambia bandiera dopo l'affidamento provvisorio e senza una plausibile ragione;
- le critiche/accuse all'altro genitore appaiono inconsistenti, esagerate, contraddittorie o contraddette dai fatti;
- le critiche/accuse appaiono stereotipate, prive di dettagli e copia-carbone del pensiero di uno dei genitori;
- le critiche/accuse sono estranee all'ambito di esperienza di un bambino di quell'età (per esempio, un bambino di 6 anni che critica il padre perché "è incapace sul lavoro, si appoggia sempre agli altri, non sa farsi valere");
- formulazione di critiche/accuse che contengono informazioni che solo l'altro genitore può aver fornito ("Tua madre frequenta altri uomini quando noi non la vediamo");- ansia e paura nell'incontrare l'altro genitore in assenza di ragioni concrete (ad esempio, perché una figlia dovrebbe avere paura del padre dopo la separazione se prima non ne aveva?);- preoccupazioni volte a tutelare, senza una ragione specifica, un genitore rispetto all'altro;- ricerca di informazioni sul genitore bersaglio e/o considerazione delle informazioni sul genitore programmatore come segrete, da non divulgare;
- partigianeria a favore del nuovo compagno del genitore rispetto all'altro genitore biologico;
- presenza di razzismo familiare ("Noi siamo i Rossi, brava gente; i Bianchi invece sono dei buoni a nulla e prepotenti"; "Così è tuo padre e così è tuo nonno");
- ritenere che un genitore sia soltanto vittima e l'altro soltanto colpevole o responsabile con una visione manichea e senza sfumature.

4. Fattori facilitanti lo sviluppo della sindrome
La diagnosi è complicata dal fatto che l'alienazione genitoriale può avvenire anche in assenza di un programma consapevole da parte del genitore che se ne avvantaggia. Inoltre le strategie che possono essere messe in opera per indottrinare e istigare il figlio contro l'altro genitore possono essere dirette e indirette : entrambe ruotano attorno ad un tema principale ("Tuo padre ci ha fatto mancare il sostegno economico") con ramificazioni e ampliamenti generalizzanti ("È un buono a nulla come suo padre"), ma non sono spesso immediatamente riconoscibili.
Delle strategie dirette è più facile trovare traccia perché possono essere scoperte vagliando in filigrana il comportamento del figlio che ricalca le opinioni di un genitore a danno dell'altro in assenza di assorbimento delle ragioni espresse da quest'ultimo. In alcuni casi è poi possibile scoprire con quali minacce, promesse, premi si è guadagnata l'opinione del figlio.
Le tecniche indirette, invece, incidono più sottilmente sull'opinione e sul comportamento dei figli. Esse di solito consistono nel far leva sulle emozioni del bambino, sul suo senso di lealtà. Stratagemmi di questo tipo possono essere di varia natura e la letteratura psicosociale è piena di indicazioni su tecniche più o meno esplicite di influenza interpersonale (Gulotta, 1995; 1989). Proviamo ad elencarne qualcuna (oltre a quelle indicate nella tabella):
- raccontare aneddoti in cui l'altro genitore è perdente o ridicolo ("Ti ricordi quando tua madre è stata bocciata all'esame per la patente?");
- esagerare il proprio ruolo quale educatore sfumando quello dell'altro genitore ("Ti ricordi che io ti ho messo al mondo, allattata, curata, vestita, nutrita… mentre tuo padre lavorava tutto il giorno e stava con te solo la sera?");
soddisfare i desideri del figlio che l'altro limita o disapprova ("Se tua madre non vuole portarti allo stadio lo farò io");
mostrare gusti, idee, opinioni… diametralmente opposti a quelli dell'altro genitore;
"sgenitorializzare" l'altro genitore, ad esempio chiamandolo col nome proprio ("C'è Giovanni al telefono" invece di "C'è tuo padre al telefono"), togliendo le sue foto dalla casa…;
meta-comunicare in modo paradossale sull'altro genitore ("Ci sarebbero molte cose da dire su tua madre, ma io non sono uno che critica i genitori"; "Rispetto la decisione di tuo padre di venirti a trovare, che lo voglia veramente o meno"; "Lo sai che in fondo tuo padre ti vuole bene, anche se non ti sta più vicino)", creando doppi legami che lo confondono e lo rendono più facilmente suggestionabile;
mistificare le impressioni ed i sentimenti del figlio ("Non puoi essere scontento, con tutto quello che faccio per te"; "Non puoi voler bene a tuo padre, non hai visto come si è comportato?)";
chiedere continuamente al figlio cosa ne pensa dell'altro genitore, costringendolo a prendere posizione, e premiarlo o punirlo a seconda delle sue risposte.

È evidente che le tecniche descritte siano solo alcune di quelle maggiormente riscontrate nella letteratura e che sia sufficiente l'utilizzo di qualcuna di esse per provocare gli effetti descritti, ma ciò non esclude che altri metodi di brainwashing , tra gli innumerevoli esistenti, possano essere posti in atto, più o meno consapevolmente, determinando la sindrome di alienazione genitoriale.
Allo stesso modo, non è scontato che l'utilizzo di tali tecniche porti inevitabilmente il bambino a schierarsi con il genitore programmatore, soprattutto se il figlio possiede un livello di autonomia cognitiva, affettiva e sociale tale da impedirgli di essere suggestionato. Non si esclude peraltro che egli possa coscientemente accettare il ruolo ascrittogli e colludere con uno dei genitori per gettare discredito sull'altro al fine di ottenere un qualche tipo di concessione, per semplice vendetta a causa di un torto subìto o percepito come tale, per rendere più probabile l'affidamento al genitore preferito.
Nella letteratura vengono descritte alcune caratteristiche psicologiche e comportamentali del genitore bersaglio che faciliterebbero l'instaurarsi della PAS, anche se ad esso è generalmente attribuita un'importanza minore rispetto al ruolo del genitore programmatore (Wakefield, Underwager, 1990; Rand, 1997b):
- il sesso: in due terzi dei casi il genitore bersaglio è il padre, che ha quindi maggiore probabilità di essere vittima della PAS soprattutto quando viene accusato falsamente di abuso sessuale;
- la responsabilità attribuita per il fallimento del matrimonio: il genitore a cui viene attribuita tale responsabilità ha maggiore probabilità di divenire genitore bersaglio, soprattutto quando è stato infedele al coniuge o ha avviato una nuova relazione subito dopo la separazione;
- distanza emotiva dai figli: il genitore che ha un atteggiamento distaccato verso i figli ha più probabilità di diventare bersaglio della PAS in quanto reagisce alla situazione quando è troppo tardi e comunque viene percepito in modo negativo dai figli che tendono a preferire il genitore più vicino affettivamente;
- atteggiamento particolarmente passivo e ambivalente o, al contrario, aggressivo verso il partner, i figli e le questioni relative al loro affidamento ed alla separazione in generale: il genitore che si mostra poco risoluto verso le questioni attinenti l'affidamento dei figli o la separazione, e che quindi si lascia "guidare" dalle mosse dell'ex-partner senza reagire, ha maggiore probabilità di diventare genitore bersaglio perché permette all'altro di influenzare il figlio; anche il genitore che, al contrario, si mostra troppo aggressivo, diviene più probabilmente bersaglio della PAS, in quanto ad esso sarà più facile attribuire la "causa" del conflitto genitoriale.
Un ruolo importante nell'attenuare o aumentare le conseguenze della PAS è rivestito dalle terze persone che, oltre alla famiglia, entrano a far parte della disputa per l'affidamento dei figli. Dopo la separazione, si assiste infatti spesso alla creazione di vere e proprie alleanze degli amici e parenti della ex-coppia con uno dei due membri, che, ascoltando la sola "versione" della storia matrimoniale di una parte, tendono a perdere la propria obiettività. Se ciò è normale ed i nuovi "alleati" hanno spesso la funzione di supportare affettivamente il nuovo partner nel difficile momento che segue la separazione, essi possono però divenire in alcuni casi un fattore facilitante l'instaurarsi della PAS, in quanto collaborano, più o meno inconsapevolmente, a creare e sostenere le manovre dell'eventuale genitore alienante (Johnson, Roseby, 1997).
Tra i ruoli più importanti in questa dinamica vi è sicuramente quello dei nuovi partners , che possono diventare motivo di ulteriore conflitto facendo pressioni per ottenere concessioni in merito alle visite dei figliastri o al loro affidamento. In alcuni casi i nuovi partners sono i veri responsabili del conflitto nella coppia separata e possono dunque fungere da suo catalizzatore fino a spingere l'altro ad alienare il figlio e, nei casi estremi, ad indurlo a sostenere false accuse di maltrattamenti o di abuso sessuale. Più spesso, un fattore indiretto connesso ai nuovi partners che favorisce l'instaurarsi della PAS è quello relativo alle differenze culturali, sociali e religiose con l'altro genitore, che può fungere da ulteriore motivo di allontanamento del figlio.
In particolare, sono descritti nella letteratura numerosi casi di sindrome di alienazione genitoriale indotta attraverso l'appartenenza del genitore alienante e/o del nuovo partner a svariati tipi di "culti", che possono ruotare intorno ad un tema qualsiasi (religioso, culturale, ideologico…) ma al di là del quale presentano caratteristiche comuni facilitanti la PAS: la presenza di un leader carismatico che controlla i membri del culto, l'utilizzo dell'indottrinamento e talvolta di un vero e proprio lavaggio del cervello come modalità di apprendimento della nuova ideologia e di "rimozione" della propria autonomia di pensiero e
della propria storia di vita, l'isolamento da persone non facenti parte del culto ad eccezione di quelle presso cui si cercano nuovi adepti, l'instaurarsi di una visione manichea del mondo con forti valenze di in-group e out-group e di nuovi stili di vita diversi e dunque anche da quelli dell'altro genitore. Lo stato psicologico delle persone che si sono appena separate le rende più vulnerabili nei confronti di tali culti, spesso sentiti come mezzo di riconoscimento della propria "rettitudine": l'entrata nel culto rappresenta una sorta di inconscia redenzione morale atta a rimuovere i sensi di colpa che seguono alla separazione, attribuita totalmente all'ex-partner. I figli che si uniscono al genitore appartenente al culto subiscono a loro volta questo processo di spersonalizzazione, tanto più quando sono piccoli e non possiedono una sufficiente autonomia di pensiero (Greene, 1989; Singer, Lalich, 1995).
Infine, e non a caso tratto l'argomento proprio a conclusione di questo articolo, un ruolo di assoluta importanza nelle dinamiche conflittuali tra i genitori separati e dunque anche nell'eventualità dell'instaurarsi della PAS è quello dei professionisti che, a vario titolo, entrano nelle questioni relative all'affidamento dei figli: periti, consulenti tecnici di parte, psicoterapeuti, avvocati, giudici, mediatori, educatori.
Mentre per quanto riguarda i giudici le uniche raccomandazioni sono quella di valutare attentamente la situazione, in particolare se la preferenza del figlio verso un genitore sia genuina o indotta, e quella di utilizzare CTU capaci di riconoscere la presenza della PAS, rispetto agli altri professionisti si pone un problema di quale sia in questi casi il reale interesse del minore e delle parti .
Quanto al ruolo dell' avvocato o dell'eventuale tutore del minore, se è vero che questi deve tutelare gli interessi del proprio cliente, è altrettanto vero che quelli del genitore alienante e del minore alienato non corrispondono a quelli da loro espressi: il difensore dovrebbe astenersi dal colludere con il proprio assistito e cercare di persuadere il genitore alienante a mettere fine al comportamento patologico con il figlio, fino a rinunciare al mandato nel caso in cui il cliente non comprenda la situazione. A sua volta, l'eventuale tutore del minore dovrebbe adoperarsi allo scopo di mettere fine al processo di alienazione, il che prevede innanzitutto l'allontanamento immediato dal genitore alienante pur se il minore affermi di volere stare a tutti i costi con lui.
Veniamo ora ai professionisti della salute mentale . Quanto a quelli chiamati ad esprimere valutazioni con valenza giuridica, essi dovrebbero innanzitutto tener conto del ruolo da loro rivestito nel conflitto genitoriale, che, se mal gestito, può portare le parti ad affrontarsi ancora più duramente. È dunque necessario che essi si facciano carico, anche quando ufficialmente di parte, della intera situazione familiare, considerando la disputa genitoriale non come a "somma zero", ma come opportunità per tutti per far valere i propri interessi. Se ciò rientra di diritto nel ruolo del CTU, anche i consulenti di parte dovrebbero tenere presente che l'interesse primario è quello del minore, che non può certo essere diverso da quello dei genitori seppur questi non se ne rendono talvolta conto: nel caso sospetti la presenza di una PAS, il consulente del genitore alienante dovrebbe astenersi dal supportare le sue richieste e invece aiutarlo a comprendere che, continuando a mettere il figlio contro l'altro genitore, non lo sta tutelando ma, al contrario, lo sta danneggiando psicologicamente.
Tra i professionisti della salute mentale, merita una specifica trattazione il ruolo dello psicoterapeuta dei figli, che può diventare parte del sistema che alimenta la PAS, in particolare quando le uniche persone con cui effettua i colloqui sono il genitore alienante ed il figlio. Questa situazione si realizza purtroppo di frequente, in quanto il genitore che sceglie lo psicoterapeuta per il figlio, lo accompagna per la seduta e si fa carico del pagamento, è nella posizione di influenzare lo psicoterapeuta in merito al ruolo che questi adotta, agli obiettivi della terapia ed agli eventuali terzi partecipanti. Lo psicoterapeuta si trova così a svolgere la terapia sulla base di informazioni incomplete o false, rinforzando l'idea che il bambino debba essere "salvato" dal genitore cattivo, in realtà il bersaglio dell'alienazione genitoriale (Lund, 1995).
Tra i fattori interni allo psicoterapeuta che possono facilitare la collusione col genitore alienante, oltre alla misconoscenza della PAS, uno molto importante è quello della propria teoria di riferimento in merito alla influenza delle relazioni interpersonali sulla sofferenza psicologica. Campbell (1992) ha mostrato come gli psicoterapeuti che tendono ad effettuare inferenze negative sul ruolo svolto dai genitori separati possono rinforzare il senso di rabbia del bambino verso uno dei genitori. Così, quando il punto di vista personale dello psicoterapeuta verso il genitore bersaglio della PAS è negativo, ne scaturisce una forma più o meno sottile di influenzamento sul bambino, che facilita o rinforza l'emergere dell'alienazione o comunque la visione distorta della realtà del genitore alienante.

5. Conclusioni
In conclusione, come credo di aver mostrato, è fin troppo facile confondere l'apparente desiderio di un figlio di stare con uno dei genitori, quando l'altro è considerato negativamente, con una situazione di alienazione genitoriale: per questo motivo, da parte dei professionisti deputati a valutare queste situazioni sono necessari una conoscenza approfondita della materia ed un aggiornamento continuo sulla letteratura internazionale. La valutazione deve essere inoltre effettuata caso per caso ed in concreto ed affidata a persone che abbiano una specifica competenza professionale in materia. Ciò potrà servire ad evitare pericolose generalizzazioni e l'innescarsi di conflitti ulteriori rispetto a quelli già normalmente presenti nell'ambito dell'affidamento dei figli, l'interesse dei quali - è bene ricordarlo - deve essere punto di partenza e di arrivo di qualsiasi intervento psicologico e di ogni decisione giudiziaria.

Tecniche di induzione della PAS e di brainwashing

- Negazione dell'esistenza psicosociale del genitore bersaglio (non parlare mai del coniuge, non farlo vedere al figlio, togliere le sue foto dalla casa)
Negazione della critica verso il genitore bersaglio (criticare il coniuge davanti al bambino e, quando questi ripete la critica, attribuire a lui la fonte della critica)
Distruzione dell'immagine del genitore bersaglio (parlare solo in modo negativo del coniuge)
Manipolazione della situazione (dare false informazioni al coniuge sul figlio in modo che insorgano conflitti o fraintendimenti tra i due)
Marcamento delle differenze (far risaltare le differenze tra il coniuge bersaglio e se stessi od il figlio)
Induzione di alleanza (soddisfare tutti i desideri del figlio e/o quelli non soddisfatti dal coniuge)
Creazione di alleanze con persone frequentate dal figlio (insegnanti, amici…)
Induzione del senso di colpa (convincere il figlio che se farà certe cose significa che non vuole più bene al genitore programmatore)
Induzione del dubbio (far credere al figlio che l'amore dell'altro genitore è falso, interessato…)
Induzione della paura (dire al figlio che i suoi contatti col genitore bersaglio sono pericolosi per qualche motivo)
Ricostruzione della realtà (manipolare la storia familiare: "se sei nato è merito mio, tuo padre non ti voleva", quando magari il padre voleva solo aspettare un anno per sistemarsi professionalmente)
Punizione e ricompensa (minacciare/punire o premiare il figlio se…)
Promessa (promettere al figlio che il genitore programmatore migliorerà la sue condizioni di vita)
Doppio legame (comunicare in modo contraddittorio per rendere il figlio suggestionabile all'indottrinamento)
Mistificazione (manipolare i sentimenti del figlio)

Motivazioni dei genitori programmatori
Ottenere l'affidamento totale del figlio
Vendetta contro il partner
Ottenere concessioni economiche
Convinzione di essere il genitore più adatto
Allontanamento del figlio dal partner (ritenuto) criminale, tossicodipendente, alcolista, disturbato psichicamente, antisociale…
Paura di perdere l'affetto del figlio
Convinzione di aver "dato di più" al figlio rispetto al partner
Gelosia per la nuova situazione del partner
Salvaguardia del proprio senso di identità
Desiderio di staccarsi emotivamente dal partner
Timore che il figlio scopra fatti negativi sul conto del genitore programmatore
Mantenimento della relazione con il partner attraverso il conflitto
Desiderio di controllo e/o di potere
Nel caso in cui la coppia non sia sposata, concessione del matrimonio da parte del partner che lo rifiuta
Caratteristiche dei genitori programmatori
Le ricerche empiriche stimano che gli uomini separandi che utilizzano tali tecniche sono 2%-25% e spesso di carattere autoritario e rigido; le donne sono il 4%-85% del totale delle separande e sono generalmente quelle più indulgenti
Gli uomini utilizzano maggiormente metodi diretti, come il rapimento; le donne utilizzano maggiormente la manipolazione psicologica, ad esempio le false accuse di abuso sessuale, anche perché passano solitamente più tempo col figlio
In generale, i genitori programmatori sono narcisisticamente vulnerabili, immaturi, con bassa autostima, dipendenti dal figlio o dal nuovo partner che talora è il vero responsabile della programmazione
L'utilizzo delle tecniche di lavaggio del cervello è sovrarappresentato nelle seguenti categorie di genitori: tossicodipendenti, alcolisti, abusanti, genitori che accusano il partner di incesto, criminali in genere, disturbati psichicamente

Caratteristiche dei bambini plasmabili
Dipendenza da, identificazione, alto numero e durata dei contatti, esistenza di segreti, somiglianza con il genitore programmatore
Assenza di fratelli o sorelle o comunque di altre persone rilevanti oltre ai genitori
Paura e/o ansia anche indotte
Passività
Bassa capacità di insight
Presenza di sensi di colpa
Egocentrismo
Bassa autonomia
Bassa autostima
Bassa assertività
Importanza data dal bambino al fatto di avere genitori biologici o meno, a seconda della nuova situazione del genitore bersaglio
Età (fino ai 2 anni circa il bambino è poco suggestionabile; da questa età la suggestionabilità cresce fino ai 7/8 anni per rimanere costante fino ai 15/16: da questo periodo in poi, all'aumentare dell'età dell'adolescente l'insorgere di critiche ed accuse ingiustificate contro il genitore bersaglio è sempre più il frutto della sua menzogna intenzionale influenzata o meno dalla manipolazione genitoriale)

Effetti a breve e lungo termine sul bambino
Possono essere molto diversi a seconda delle tecniche utilizzate, della loro intensità e durata, delle risorse e dell'età del bambino, del fatto che egli creda o meno a quanto gli viene propinato.

In generale, gli effetti possono essere:
· Aggressività
· Mancanza di controllo e acting-out
· Problemi scolastici
· Paura immotivata del genitore bersaglio
· Ostilità verso amici, parenti, opinioni, azioni… connesse al genitore bersaglio
· Confusione emotiva e/o intellettiva
· Disordini alimentari, del sonno, dell'attenzione e psicosomatici in generale
· Dipendenza emotiva
· Bassa autostima
· Fobie
· Regressione
· Eccesso di razionalizzazione
· Futuro carattere manipolatorio e/o materialistico
· Depressione
· Comportamenti autodistruttivi e/o ossessivo-compulsivi
· Tossicodipendenza e alcoldipendenza
· Problemi sessuali, di identità di genere, relazionali, emotivi
· Disturbi dell'identità
· Egocentrismo
· Narcisismo
· Falso Sé
· Nei casi più gravi si rilevano anche sindromi di tipo psichiatrico (es. schizofrenia, psicosi paranoiche…)
Questo articolo è pubblicato sul sito http://www.minori.it/, che ringraziamo per la gentile possibilità di citazione (l'articolo si trova nel n. 4 dei Quaderni "Pianeta Infanzia").

LA SINDROME DELLA MADRE MALEVOLA 2

LA SINDROME DELLA MADRE MALEVOLA

Sommario
Con il crescere del numero dei divorzi che coinvolgono i bambini, è emerso uno schema di comportamento anomalo che ha suscitato scarsa attenzione. Il presente studio descrive la Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio. Vengono dati degli specifici criteri nosologici con numerosi esempi clinici. Data la mancanza di dati scientifici disponibili sul disturbo, è necessario approfondire i problemi della classificazione, dell’eziologia, della cura e della prevenzione.

Indice

Introduzione

Definizione
Modello 1a: L'alienazione dei figli
Modello 1b: Coinvolgere altri in azioni dolose
Modello 1c: Eccesso di azioni legali
Modello 2a: Proibizione di visite regolari
Modello 2b: Libere conversazioni telefoniche con il padre
Modello 2c: Impedimento della partecipazione alle attività extracurricolari
Modello 3a: Menzogne malevole ai figli
Modello 3b: Menzogne malevole agli altri
Modello 3c: Violazioni della legge per danneggiare il marito
Modello 4: Comportamento non dovuto ad altro disturbo
Discussione

Introduzione
Un divorziato ottiene l’affido dei figli e l’ex-moglie gli brucia la casa. Una donna che era in guerra col marito per l’affido, compra ai figli un gatto pur essendo a conoscenza che il marito è allergico a questi animali. Una madre obbliga i figli a dormire in macchina per “dimostrare” che il loro padre li ha portati alla bancarotta. Queste azioni illustrano uno schema di comportamento anomalo che si è manifestato sempre più frequentemente con l’aumento del numero dei divorzi di genitori con figli.
Oggi metà dei matrimoni finiscono col divorzio (Beal e Hochman, 1991). Anche il numero dei bambini coinvolti nel divorzio è fortemente aumentato (vedi per es. Hetherinton e Arastah, 1988). La maggior parte di questi casi viene “risolta” dal punto di vista legale, ma la battaglia continua fuori dal tribunale.
I media si sono notevolmente impegnati al fine di aumentare la consapevolezza del pubblico sul problema dei padri divorziati che non provvedono al pagamento dell’assegno di mantenimento fissato dal tribunale. Hodges (1991) ha osservato che a tre anni dal divorzio solo il 20% dei padri divorziati provvede al pagamento dell’assegno di mantenimento. L’indagine sul conseguente peggioramento delle condizioni economiche delle donne (vedi per es. Hernandez,1988; Laosa, 1988) ha contribuito all’approvazione recente di leggi per affrontare il problema dei padri inadempienti.
Mentre i media giustamente descrivono le difficoltà causate alle donne e ai bambini dal fenomeno dei padri inadempienti, non si parla ancora della guerra ingaggiata da un gruppo distinto di madri contro padri che pagano regolarmente l’assegno e rispettano la legge. Tutti i giorni avvocati e terapisti ascoltano narrazioni simili a racconti dell’orrore in cui vengono attribuiti a padri innocenti comportamenti perversi. Purtroppo non vi sono dati scientifici sull’argomento. Anche la letteratura clinica ha ignorato il problema.
Si può trovare un’eccezione famosa negli scritti di Gardner(1987,1989) che ha descritto in modo eccellente la Sindrome da alienazione parentale che si manifesta con una serie di manovre attuate con successo dal genitore affidatario per alienare il figlio dal genitore non residente. Dopo essere stato sottoposto ad un efficace condizionamento, il bambino è “dominato dall’idea di denigrare e disapprovare uno dei genitori in modo ingiustificato e/o esagerato” (Gardner, 1989 pag.226). Nei casi tipici di Sindrome da alienazione parentale la madre e il figlio mettono in atto una serie di azioni anomale contro il padre. Gardner considera il concetto di “lavaggio del cervello” troppo limitato (Gardner,1989) per comprendere la manipolazione psicologica che il bambino subisce quando lo si spinge all’ostilità nei confronti del padre non residente.
Mentre le pionieristiche descrizioni di Gardner della PAS danno un importante contributo alla nostra comprensione delle ostilità presenti nei casi di divorzio che coinvolgono i figli, il presente studio riguarda un’anomalia più globale. Come già sottolineato negli esempi dati all’inizio di questo lavoro, nel corso delle cause di divorzio si verificano nei confronti dei mariti attacchi gravi che vanno al di là della semplice manipolazione dei figli. Inoltre queste azioni rivelano l’intenzionalità da parte di alcune madri di violare la legge della comunità. Infine, vi sono alcune madri che hanno costantemente comportamenti malevoli allo scopo di alienare i figli dal padre anche se non riescono a raggiungere il loro scopo. Insomma questi casi non corrispondono ai modelli della PAS, tuttavia indicano un'anomalia grave.
Lo scopo del presente studio è di definire e illustrare questa anomalia più generale con la speranza di provocare una sempre più approfondita analisi scientifica e clinica del problema.
Definizione
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Questa sezione fornisce una definizione iniziale della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio che è stata tratta da casi clinici e giudiziari. Come per tutte le proposte iniziali, si auspica che le ricerche future portino ad un maggiore affinamento dei criteri tassonomici. La definizione proposta abbraccia quattro principali modelli di comportamento, come segue:
Una madre che senza giustificazione punisce il marito da cui sta divorziando o ha divorziato:
tentando di alienare i figli dal padre
coinvolgendo altri in azioni malevole contro il padre
intraprendendo un contenzioso eccessivo
La madre tenta semplicemente di impedire:
le visite regolari dei figli al padre
le libere conversazioni telefoniche tra i figli e il padre
la partecipazione del padre alla vita scolastica e alle attività extracurricolari dei figli
Lo schema è pervasivo e comprende azioni malevole come:
mentire ai figli
mentire ad altri
violazioni della legge
Il disturbo non è specificamente dovuto ad un altro disturbo mentale, pur potendo coesistere con un altro disturbo mentale distinto [illustrazioni cliniche].In questa sezione darò esempi clinici di ciascun punto usando i numeri di riferimento usati sopra.
Poiché i modelli di comportamento dall’1 al 3 sono specifici della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio , darò una serie di esempi clinici. Il quarto punto che riguarda il rapporto della sindrome in esame con altri disturbi mentali sarà discusso in modo più generale.
Modello 1a: L'alienazione dei figli
La gamma di azioni intraprese da parte delle madri per tentare di alienare i figli dal padre è impressionante. Per esempio:
Una madre ha mentito ai figli dicendo che non poteva più comprare il cibo perché il padre aveva speso tutto il loro denaro con le donne nei “topless bar”.
La moglie di un medico ha obbligato il figlio di 10 anni a richiedere i pasti gratis a scuola per fargli credere che il padre li aveva fatti diventare poveri.
Ad una donna che per anni era stata vicina ai bambini nel corso della battaglia legale per la custodia la madre ha chiesto di abbandonare l’atteggiamento di neutralità e di schierarsi dalla sua parte per ”ballare sulla tomba del marito”. Quando l’amica ha rifiutato, la madre ha detto ai figli, mentendo, che la donna aveva una relazione col loro padre.
Comportamenti simili, se coronati da successo, possono portare i figli non solo ad odiare il padre, ma forse a non vederlo per anni. Come ha osservato Cartwright: “Lo scopo del genitore alienante è cristallino: privare il genitore perduto non solo del tempo da trascorrere col figlio, ma anche della sua infanzia”.
Modello 1b: Coinvolgere altri in azioni dolose
La seconda componente del primo modello di comportamento con cui la madre tenta di punire il marito, implica la manipolazione di altre persone da coinvolgere in azioni dolose contro il padre. Esempi di questo tipo sono qui di seguito:
Durante la battaglia legale per la custodia, una madre ha mentito al terapista riguardo al comportamento del padre. Il terapista, che non aveva mai parlato col padre, ha testimoniato davanti al giudice in qualità di esperto esprimendo il parere che la custodia dovesse essere affidata al genitore residente e che il padre doveva sottoporsi a terapia.
Una madre in preda alla rabbia ha spinto i figli adolescenti a lasciare lettere anonime di minaccia nella casa dell’ex-marito.Una madre che aveva perduto la custodia legale dei figli ha indotto la segretaria della scuola del figlio ad aiutarla a rapire il bambino.
Nei casi suddetti è importante rilevare che la persona manipolata dalla madre è stata in qualche modo coinvolta nella rabbia della madre e “alienata” dal marito di questa in procinto di divorziare. La persona “raggirata” assume un tipico atteggiamento di virtuosa indignazione che contribuisce a creare un’atmosfera gratificante per la madre che si appresta ad intraprendere azioni dolose.
Modello 1c: Eccesso di azioni legali
È indubbio che entrambe le parti in causa nelle procedure per il divorzio o per l’affido hanno il diritto di presentare istanze o avviare azioni legali. Tuttavia alcune donne che soffrono della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio tentano di punire il marito con un eccesso di azioni legali.
Una madre bellicosa e irragionevole attaccava verbalmente il marito dovunque lo incontrasse. Col tempo la reazione di lui è stata quella di ignorarla. Allora lei ha portato il suo ex-marito davanti al giudice per obbligarlo a parlarle.
Una madre ha detto al giudice che sua figlia non era figlia del marito.
Una donna si è rifiutata di rinunciare alle continue azioni legali contro l’ex-marito, malgrado numerosi avvocati avessero abbandonato il caso volontariamente o fossero stati licenziati. In tre anni si erano succeduti sette diversi avvocati.
Esistono dati che possono aiutare a determinare la gamma delle azioni legali. Per esempio Koel e altri (1988) riferiscono la frequenza di processi in un campione di 700 famiglie. I loro dati indicano che solo il 12,7% delle famiglie presentano una sola istanza in tribunale dopo il divorzio, mentre meno del 5% presentano 2 o più istanze; meno dell’1% presentano 4 o più istanze.
Modello 2a: Proibizione di visite regolari
Gli esperti sono abbastanza concordi nel ritenere che le visite regolari e ininterrotte al genitore non residente siano auspicabili e benefiche per i figli, tranne in circostanze estreme (Hodges, 1991). In effetti, alcuni stati come la Florida hanno leggi scritte che riflettono questa opinione (Keane, 1990). Purtroppo, anche quando il padre e i figli hanno diritto legale alle visite, madri affette dalla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio continuano a frapporre ostacoli all’esercizio di questo diritto.
Una madre, che aveva in precedenza aggredito fisicamente il marito quando questi andava a prendere i figli, gli ha impedito di prenderli con se anche quando si è presentato con la polizia.Una madre, per impedire al padre di vedere i figli, non si faceva mai trovare in casa quando il marito divorziato andava a trovarli.Una madre ha spinto il suo boyfriend, un tipo dall’aspetto feroce, ad aggredire il marito che era venuto a prendere i figli.
Il presidente dell’Associazione per i diritti del fanciullo (Washinghton,D.C.) osserva che questa alienazione è considerata una forma di violenza sul bambino (Levy,1992). Purtroppo la polizia in genere evita di essere coinvolta in queste situazioni. Inoltre, a meno che il padre vittimizzato non sia finanziariamente in grado di ritornare in tribunale sulla base dei fatti, si può fare poco per impedire questi comportamenti da parte della madre. Infine, persino quando tali fatti vengono portati in tribunale, quest’ultimo è spesso inadeguato ad appoggiare il diritto di visita da parte del padre (Commissione sul pregiudizio legato al sesso nel sistema giuridico, 1992).
Modello 2b: Libere conversazioni telefoniche con il padre
Nei casi di assenza fisica di un genitore il telefono svolge un ruolo importante nel mantenere il legame tra il figlio e il genitore non residente. Alcune madri affette dalla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio compiono una serie di atti volti ad impedire i rapporti telefonici.
Ad un padre che telefonava per parlare con i figli è stato detto che essi non erano in casa, mentre lui sentiva le loro voci in sottofondo.
Un altro padre che chiamava per parlare con i figli è stato lasciato in attesa al telefono senza che nessuno venisse avvertito della telefonata.
Sapendo che il padre era in vacanza, una madre ha spinto i figli a lasciare numerosi messaggi alla sua segreteria telefonica nei quali gli si chiedeva di richiamare immediatamente in caso fosse disponibile per andarli a prendere al di fuori del tempo stabilito per le visite.
Alcuni padri trovano questi tentativi di alienazione così dolorosi che alla fine smettono di telefonare ai figli: semplicemente “mollano”. In uno scenario di sconfitta, l’abbandono del padre (Hodge1991) sfortunatamente raggiunge proprio il risultato che la madre affetta dalla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio si proponeva.
Modello 2c: Impedimento della partecipazione alle attività extracurricolari
Una parte integrante del processo di mantenimento del legame col proprio figlio è la partecipazione alle attività che si svolgevano prima che i genitori si separassero. Attività sportive a scuola, sport di gruppo ed eventi religiosi sono solo alcuni tipi di attività importanti. Le madri malevole spesso adottano manovre atte ad evitare la partecipazione a tali attività.
Ad un padre sono state date volutamente la data e l’ora sbagliate di un evento importante per il figlio al quale la madre ha chiesto:”Chissà perché tuo padre oggi non è voluto venire a trovarti?”
Una madre ha rifiutato di dare al padre informazioni sulle attività extracurricolari in cui erano impegnati i figli.
Prima di una partita di calcio a cui partecipava il figlio, una madre ha raccontato delle falsità a discredito del marito a molti dei genitori degli altri bambini. Quando lui è arrivato per assistere alla partita, molti dei genitori gli lanciavano occhiate irritate, si rifiutavano di parlare con lui e si allontanavano quando lui si avvicinava.
Le madri malevole che hanno questi comportamenti raramente subiscono delle punizioni come conseguenza delle loro azioni. Giudici, avvocati e polizia non possono occuparsi di tutti i casi in cui al padre viene impedito il contatto con i figli. Inoltre la maggior parte dei padri non può permettersi le spese necessarie. Così il ciclo di interferenze nei rapporti tra padri e figli si perpetua.
Modello 3a: Menzogne malevole ai figli
Data la loro condizione evolutiva, i bambini in una situazione di divorzio conflittuale sono piuttosto vulnerabili. Quando un genitore decide di danneggiare l’altro mentendo ai figli, si possono verificare casi di comportamento malevolo come i seguenti:
Una madre in fase di divorzio ha detto alla sua giovanissima figlia che il marito non era il suo padre vero, anche se lo era.
Una ragazzina di 8 anni è stata obbligata dalla madre a consegnare al padre delle fatture non pagate: la madre lo aveva accusato falsamente di non provvedere al sostentamento della famiglia.
Una madre ha raccontato ai figli che il padre in passato l’aveva ripetutamente battuta, cosa assolutamente falsa.
Questi esempi di bugie malevole possono esser confrontate con le manovre più sottili tipiche della PAS, come le “asserzioni virtuali” (Cartwright,1993): la madre che causa la Sindrome da alienazione parentale può insinuare che vi è stata violenza, mentre la madre affetta dalla Sindrome della madre malevola afferma falsamente che vi è stata effettivamente violenza.
Modello 3b: Menzogne malevole agli altri
È possibile che delle madri affette dalla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio coinvolgano un numero considerevole di persone nei loro attacchi contro l’ex-marito. Tuttavia, nel caso di questo particolare modello, il soggetto affetto dalla sindrome mente esplicitamente ad altre persone nel conflitto contro il marito.Ecco alcuni esempi:
Una madre furente ha chiamato al telefono il presidente del luogo in cui il marito lavorava (1500 impiegati) sostenendo falsamente che questi usava beni dell’azienda per guadagno personale e che usava violenza ai figli sul luogo di lavoro.
Una donna ha mentito a dei funzionari statali sostenendo che l’ex-marito abusava sessualmente della figlia.
Nel corso delle procedure per l’affido, una madre ha mentito al tutore che stava svolgendo indagini sulle capacità genitoriali di ciascun genitore, riferendogli che il padre le aveva usato violenza.
Snyder (1986) ha scritto delle difficoltà che le autorità legali incontrano quando si trovano di fronte qualcuno che è un ottimo bugiardo. Le ricerche concordano sull’incapacità degli specialisti di scoprire la menzogna (Ekman e O’Sullivan,1991) e sulla capacità di un abile bugiardo di testimoniare in tribunale in modo persuasivo (Snyder, 1986). Snyder (1986) rileva che la menzogna patologica (Pseudologia Fantastica), per quanto talvolta si riscontri in personalità “borderline”, non è limitata a quel particolare disturbo della personalità.
Modello 3c: Violazioni della legge per danneggiare il marito
La battaglia contro il marito da parte delle donne affette da Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio non ha praticamente alcun limite. Le violazioni della legge sono comuni in molti casi, anche se di solito si tratta di infrazioni relativamente non gravi. Tuttavia in alcuni casi le violazioni sono abbastanza serie.
Una madre ha intenzionalmente spinto la sua automobile contro la casa dell’ex-marito nella quale risiedevano i loro figli.
Nel corso della battaglia per la custodia legale dei figli, una donna si è introdotta nella residenza del marito ed ha trafugato dei documenti importanti.
Una madre furibonda ha telefonato ad una televisione cristiano-evangelica ed ha offerto 1.000 dollari a nome del marito ebreo del quale ha fornito indirizzo e numero telefonico.
Gli esempi suddetti possono richiamare alla mente del lettore certi disturbi della personalità (per es. antisociale, “boderline”, sadica); tuttavia questi comportamenti si possono riscontrare anche in donne affette da Sindrome della madre malevola che non sembrano conformarsi ai modelli diagnostici ufficiali del disturbo di tipo Axis II. Inoltre nessuna delle madri malevole coinvolte nei casi menzionati ha subito una condanna dal giudice per il suo comportamento.
Modello 4: Comportamento non dovuto ad altro disturbo
Nel valutare la Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio, è importante notare che molti dei suddetti casi clinici sembrano essersi verificati in soggetti che non avevano ricevuto una diagnosi o cure precedenti per disturbi mentali. Anzi una madre che aveva un comportamento estremamente malevolo nei confronti del marito, in fase di divorzio ha presentato molti testimoni, specialisti di salute mentale, che hanno asserito che non soffriva di alcun tipo di disturbo mentale.
Secondo l’esperienza dell’autore, per ogni disturbo mentale che possa venire in mente per spiegare una parte di questo comportamento, vi è sempre un caso eccezionale. Per esempio in alcuni casi può essere appropriata una diagnosi di disturbo di adattamento: tuttavia vi è il caso di una donna che, ancora 10 anni dopo il divorzio, continuava a negare al diritto di visita. Altri casi potrebbero suggerire come possibile diagnosi un disturbo della personalità: ma vi è il caso di una donna che ha ripetutamente violato la legge con continui attacchi contro il marito e nei confronti della quale specialisti di alto livello non hanno mai riscontrato disturbi della personalità. In alcuni casi si potrebbe prendere in considerazione la diagnosi di disturbo esplosivo intermittente, ma in alcune madri la rabbia non appare intermittente.
Infine il lettore dovrebbe rendersi conto che, da una parte non sempre l’accuratezza della diagnosi per certi disturbi psichiatrici è quella ci si aspetterebbe (per es. i disturbi della personalità, vedi Turkat,1990), dall’altra il problema è reso più grave nel diritto di famiglia quando a volte vengono coinvolti nel processo degli esperti di salute mentale incompetenti (Turkat, 1993). Chiaramente il rapporto tra la Sindrome della madre malevola e altri disturbi mentali è complesso e richiede indagini significative.
Discussione
La descrizione precedente della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio solleva una molteplicità di problemi clinici, legali e scientifici importanti.
Sotto l’aspetto clinico le famiglie in cui si manifesta la sindrome sono soggette a gravi episodi di stress e angoscia. Tuttavia non vi è chiarezza scientifica su come curare il fenomeno. Questa è particolarmente compromessa dal fatto che molti dei soggetti che sembrano conformarsi ai modelli diagnostici proposti negano che vi sia in loro qualcosa di anomalo.
Un’ulteriore difficoltà è causata dal fatto che molti terapisti non sono consapevoli di questo schema di comportamento malevolo (Heinz e Heinz, 1993). Così vi sono terapisti che vengono ingannati nel trattare questi casi e, come è stato osservato prima, testimoniano in tribunale che non vi è niente di anomalo nel comportamento della madre coinvolta.
Sotto l’aspetto legale ci sono avvocati che possono, involontariamente, incoraggiare questo tipo di comportamento (Gardner, 1989). D’altro canto vi sono anche avvocati che incoraggiano intenzionalmente questo comportamento in quanto ne ricavano un tornaconto che è legato alla durata dell’azione legale. In altre parole, più è complesso il processo, maggiore è il profitto per l’avvocato. (Grotman e Thomas, 1990). Tuttavia, anche per la sottospecie di avvocati per cui ciò può valere, vi è un momento in cui il profitto diminuisce. Inoltre, a prescindere da considerazioni economiche, molti di coloro che hanno a che fare con i tribunali che giudicano le cause che coinvolgono la famiglia, trovano che questi casi sono affrontati in modo non corretto. (Greif, 1985; Levy,1992).
Nessuna donna che abbia questo tipo di comportamento perde il diritto all’assegno di mantenimento, a meno che non sia affetta da turbe così gravi da perdere la custodia dei figli; e non va neppure in prigione. Così molti clienti denunciano una notevole frustrazione quando essi e i loro figli sono esposti a questo tipo di comportamento, e sembra che i tribunali facciano ben poco.
In una rassegna di scritti giuridici sul pregiudizio nei confronti degli uomini nei procedimenti legali Tillitski (1992) conclude che vi è una diffusa discriminazione. Questa è bene illustrata dall’affermazione di un giudice di processi relativi a controversie familiari che ha detto: “Non ho mai visto i vitelli seguire i buoi, seguono sempre la mucca; perciò io do sempre la custodia alle mamme.” (Commissione d’indagine sul pregiudizio legato al sesso ne sistema giudiziario, 1992, pag.741). Analogamente, si nota che il rigore che viene applicato per far rispettare l’ordinanza relativa all’assegno di mantenimento, non viene invece esercitato nel far valere il diritto di visita da parte del padre. (Commissione d’indagine sul pregiudizio legato al sesso nel sistema giudiziario, 1992). In conseguenza di questi pregiudizi contro gli uomini nella procedura del diritto di famiglia alcuni padri diventano senza volerlo vittime relativamente inermi del sistema (Tilletski, 1992). Questa situazione sembrerebbe rafforzare il comportamento doloso messo in atto da donne che soffrono della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio.
Certo occorre affrontare il problema dell’incidenza del disturbo secondo il sesso. La schiacciante maggioranza dei genitori affidatari sono donne (Commissione d’indagine sul pregiudizio legato al sesso nel sistema giudiziario, 1992). Gardner (1989) ha notato che la PAS si presenta più comunemente nelle donne, anche se è possibile che un uomo a cui è stata affidata la custodia dei figli abbia lo stesso tipo di comportamento alienante. L’esperienza dell’autore, relativa alla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio, è simile a quella di Gardner, ma chi scrive non ha ancora trovato un solo caso di padre che abbia assunto uno dei comportamenti elencati sopra. Ciò non significa che non ci sia la possibilità che la sindrome del ”padre malevolo” esista. Anzi Shephard(1992) riferisce che esistono dei casi significativi di violenza nei confronti di alcune madri affidatarie da parte di padri non residenti. D’altro canto si deve osservare che non si riscontrano finora casi di madri inadempienti, nei casi in cui spetta a loro l’onere del mantenimento dei figli. Dato che fino ad oggi non sono stati documentati casi in cui il padre assume tutti gli atteggiamenti corrispondenti ai modelli della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio mi sembra consigliabile attendere riscontri scientifici che possano guidare nella scelta di etichette di carattere nosologico.
Qual è la diffusione della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio? Non abbiamo una risposta. Gardner (1989) riferisce che circa il 90% delle controversie per la custodia implicano aspetti di alienazione parentale. Inoltre Kressel (1985) ha esaminato dei casi che indicano che addirittura il 40% delle madri a cui è stata affidata la custodia hanno impedito al padre di visitare i figli allo scopo di punirlo. Arditti (1992) ha riferito dei dati connessi: il 50% di un campione di 125 padri indicava che la madre intralciava le loro visite ai figli. Aspetti di alienazione parentale possono essere comuni, ma è estremamente improbabile che una tale percentuale di madri a cui sono stati affidati i figli rientrerebbe in tutti i modelli della Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio.
Per quanto riguarda l’incidenza, dal nome della sindrome sembrerebbe che il comportamento malevolo sia accelerato dal processo di divorzio. Tuttavia questa è una questione empirica. Le azioni malevole possono essere notate durante il processo di divorzio, ma è possibile che il comportamento malevolo fosse preesistente, anche se nascosto. Questa ipotesi è suffragata dalle ricerche sul conflitto parentale precedente al divorzio (Enos e Handal, 1986). Infatti può anche accadere che vi siano casi di disturbi mentali che non vengono scoperti finché non interviene lo stress del divorzio.
Infine si deve osservare che cominciano ad apparire ricerche sul funzionamento della famiglia dopo il divorzio. Esistono dati sul ruolo del conflitto parentale nei confronti del comportamento dei figli dopo il divorzio (per es. Frost e Parkiz, 1990; Furstenberg e altri, 1997; Healy, Malley e Stewart, 1990; Kurdek, 1988), ma non sono ancora apparsi studi sui casi più estremi di Sindrome da alienazione parentale e Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio.
La Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio rappresenta un importante fenomeno sociale. Il disturbo coinvolge bambini, genitori, avvocati, giudici, tutori, operatori psichiatrici e altri. Finché il fenomeno non viene esplorato più accuratamente nella letteratura scientifica e clinica, i problemi causati da persone affette dalla Sindrome della madre malevola nei casi di divorzio continuerà ad affliggerci. Si spera che questo scritto stimoli la ricerca così da rendere possibile lo sviluppo di linee di orientamento per la gestione clinica e legale del problema.

LA SINDROME DI STOCCOLMA

La sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi nei confronti del suo sequestratore, arrivando ad instaurare con lui anche un forte legame affettivo, in alcuni casi fino all'innamoramento.
Prende il nome dalla capitale svedese, 1973, a seguito di una rapina in banca, i dipendenti presi in ostaggio richiesero la clemenza alle sequestratori.
La sindrome di Stoccolma è talvolta citata in riferimento ad altre situazioni simili, quali le violenze sulle donne e gli abusi sui minori.

Origini del nome
La sindrome deve il suo nome alla rapina della "Kreditbanken" di Stoccolma nel 1973, in cui alcuni dipendenti della banca furono tenuti in ostaggio dai rapinatori per sei giorni. Le vittime provarono una forma di attaccamento emotivo ai loro sequestratori fino a giungere al punto di prendere le loro difese in seguito alla liberazione. Il termine fu coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, il quale aiutò la polizia durante la rapina. Fu usato per la prima volta durante una trasmissione televisiva.

Casi celebri
Patty Hearst aiutò il SLA durante una rapina in banca due mesi dopo il proprio rapimento
La ricca ereditiera Patty Hearst, dopo essere stata rapita dal Symbionese Liberation Army nel febbraio del 1974, prese parte ad una rapina in banca insieme a due dei suoi rapitori due mesi dopo. Fu arrestata nel settembre del 1975 ma la sua difesa non riuscì a far valere la tesi della mancanza di colpevolezza a causa della manifestazione della sindrome di Stoccolma
Elizabeth Smart fu rapita e stuprata da un uomo affetto da malattie mentali che la considerava sua moglie: tra il 2002 ed il 2003 la Smart trascorse diversi mesi insieme al suo aguzzino senza alcuna costrizione fisica.

Casi dubbi
Natascha Kampusch ha vissuto segregata col suo rapitore (Wolfgang Priklopil) dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si prendono cura di lei ha testimoniato dicendo che non si sentiva privata di niente e che è dispiaciuta della morte del suo rapitore (che si è suicidato dopo che era scappata). La ragazza, però, intervistata dalla televisione austriaca il 6 settembre 2006, ha smentito le voci sulla sua presunta "sindrome di Stoccolma", aggiungendo di non aver mai rinunciato alla fuga. Ha solo manifestato pietà per il rapitore suicida e per la sua famiglia. In seguito a questa intervista, che ha fatto il giro del mondo, il filosofo e psicoanalista italiano Umberto Galimberti, in un articolo apparso sulla prima pagina de La Repubblica del giorno dopo ("Una vita sospesa"), ha escluso che quello della ragazza austriaca sia un caso di "sindrome di Stoccolma".

Incidenza
Dalla banca dati dell'FBI americana risulta che il 92% degli ostaggi non ha mai mostrato sintomi della sindrome di Stoccolma [1].
Riferimenti nella cultura popolare
Film e televisione
Nelle tre serie di Law and Order
Buffalo '66
Matlock: The Kidnapping
Quel pomeriggio di un giorno da cani
Agente 007 - Il mondo non basta; James Bond (Pierce Brosnan) smaschera la bella Elektra King (Sophie Marceau) accusandola di essersi alleata con il "cattivo" di turno, Renard, che la aveva sequestrata tempo prima, avendo acquisito proprio la sindrome di Stoccolma.
Guerrilla: The Taking of Patty Hearst
Six Feet Under, episodio 44 (That's My Dog).
In Die Hard, un medico in una trasmissione televisiva descrive un fenomeno identico chiamato "sindrome di Helsinki".
In Viaggio senza ritorno del 1997 una coppia interpretata da Kevin Pollak e Kim Dickens è presa in ostaggio da Vincent Gallo e Kiefer Sutherland; l'uomo simpatizza con i propri rapitori.
Azione mutante, film di Alex de la Iglesia prodotto da Pedro Almodovar. La sposa rapita Patricia Orujo si innamora del capo dei rapitori, Ramon Yarritu, il quale riconosce la sindrome di Stoccolma.
Nell'episodio 14 della terza serie di Nip/Tuck dal titolo Cherry Peck.
In Il portiere di notte, celebre film di Liliana Cavani, la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l'uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale.

Musica
Un gruppo rock di Toronto si chiama Stockholm Syndrome
Il gruppo musicale Muse ha composto una canzone intitolata Stockholm Syndrome, inserita nell'album Absolution del 2003
La cantante americana Dory Previn, lei stessa vittima di abusi da bambina, ha scritto una canzone intitolata With My Daddy in the Attic che affronta la sindrome di Stoccolma.
I Yo La Tengo hanno una canzone intitolata Stockholm Syndrome nell'album I Can Hear The Heart Beating As One.
I blink-182 hanno una canzone dal titolo Stockholm Syndrome nel loro album blink-182.
La band punk rock svedese Backyard Babies ha realizzato un album dal titolo Stockholm Syndrome.

IL COMPLESSO DI MEDEA

IL COMPLESSO DI MEDEA
dr.ssa Laura Catalli

Secondo la Criminologia Clinica e la Psicologia, il Complesso di Medea –che ci riporta naturalmente alla nota figura greca- sta a delineare quel quadro sindromico nel quale il genitore di sesso femminile (la madre), posto in situazione di stress emotivo e/o conflittuale con il partner, utilizza il proprio figlio per scaricare la sua aggressività e frustrazione, arrivando anche all’azione omicidiaria del piccolo, strumento di potere e di rivalsa sul coniuge .
Da un punto di vista psicologico, nel momento dell’uccisione del figlio, la madre raggiunge l’apice del delirio di onnipotenza (tipico delle crisi psicotiche) e si autonomina giudice di vita e di morte.
Un esempio a riguardo è in Marybeth Tinning la quale uccise i suoi 9 figli uno alla volta facendole passare per morti naturali, nei periodi in cui litigava con il marito (tentò di uccidere anche lui avvelenandolo); altro esempio lo troviamo in Theresa Cross che uccise i suoi due figli in modo particolarmente brutale, dopo violente liti con il marito.
I così detti “Figlicidi” sono tutt’oggi un fenomeno sottovalutato e sottostimato andando ad aumentare il “numero oscuro” nello studio della statistica in questione, ossia la quantità di fatti delittuosi o quasi – delittuosi che non possono essere riportati perché non denunciati o non arrivati ad omicidio conclamato. Lo stesso Lombroso (1892) padre della Criminologia Positivista, considerava una rarità la donna violenta, nella quale lo sbocco naturale dell’aggressività si pensava fosse la prostituzione. D’altra parte l’assassinio sembra essere del tutto in contrasto con il ruolo attribuito oltre che al sesso femminile in generale ed alla madre in particolare, come protettrice della famiglia. Infine da un punto di vista evoluzionistico il figlicidio risulta “contro–natura” per la sopravvivenza della specie di cui la madre è portatrice.

Un importante riflessione può scaturire se paragoniamo il Complesso di Medea con la “Sindrome del molestatore assillante” –ovvero lo Stalking- : in entrambi possiamo notare un bisogno eccessivo di controllo sull’altro, in particolare sulla persona amata sia essa il proprio figlio (Complesso di Medea) o il partner (Stalking).
Secondo alcuni studiosi, l’origine viene fatta risalire ad una sensazione genetica alla gelosia, nel momento in cui, la paura di perdere una persona è talmente forte, non per la persona di per sé, quanto per la perdita in se stessa.
La sensazione di perdita si avverte sempre e da subito. Lo stesso Carotenuto affermava che “nasciamo traditi”: dopo nove mesi di contatto materno, la madre avverte immediatamente una sensazione di perdita e di abbandono del proprio figlio fino ad allora percepito come parte di sè. Gradualmente la madre si accorge così che il suo amore potrà essere sostituito da altre forme di amore (amici, partner) che la rimpiazzeranno.

Oltre al bisogno di possesso, già accennato, un’altra caratteristica del Complesso di Medea è quindi il bisogno di sentirsi (ed essere) unici ed esclusivi; la sensazione che molte madri hanno di perdere gradualmente una parte di se stesse è influenzato dal proprio ruolo sociale. Diversamente dal figlicidio paterno in cui il padre spesso uccide per vendetta ma è comunque “socialmente sano” in quanto, proprio per il ruolo sociale vestito, trova la sua realizzazione anche e soprattutto al di fuori del contesto familiare, nelle madri spesso (paradossalmente ancora oggi!) la massima realizzazione di sé è data dall’accudimento della casa, del marito e dei figli verso i quali opera il cosiddetto investimento emotivo (da qui il tipico iperprotettivismo materno).
La madre in questi casi ”si illumina della luce” del proprio figlio al quale dà molto, ma allo stesso tempo pretende ed investe altrettanto.

Secondo dati EURISPES del Gennaio 2003, in 226 omicidi commessi nel 2001, il 27% era ad opera dei genitori. La loro età si aggirava tra i 30 ed i 40 anni, mentre la vittime risultavano essere dai 15 anni in giù. Questi dati possono essere spiegati da un punto di vista psicologico con una maggiore propensione ed un effettivo maggior contatto con la madre (ogni individuo accenniamolo, passa da un contatto unico ed esclusivo, altrimenti detto “simbiotico”, con la figura materna alla nascita, successivamente con la figura paterna attraverso un processo di identificazione, poi con i pari per cominciare quel processo di separazione dai genitori e di creazione e sviluppo di una propria identità).
Sempre secondo l’Eurispes, gli omicidi materni vengono commessi maggiormente al nord, probabilmente per una maggiore solitudine da parte della madre nel proprio ruolo sociale, mentre nel sud, ancora oggi, è fortemente sostenuta dalla famiglia d’origine.

Quando questi omicidi vengono alla luce, la società stessa tenta di darne una spiegazione o almeno di giustificare tale atto criminoso, ma solamente l’1% di queste madri risulta, dopo dovute perizie psichiatriche, in stato patologico stabile o transitorio.
Da un punto di vista più generale, bisogna innanzitutto distinguere l’ “infanticidio” (madre procura morte del feto dopo il parto) dal “figlicidio” (madre procura morte del figlio); anche da un punto di vista legale, la differenza è fondamentale: nel primo caso la pena varia dai 4 ai 12 anni, mentre nel secondo caso è dai 21 anni in poi.

Grande studioso del Complesso di Medea è in Italia Nivoli, il quale classifica le possibili motivazioni che portano la madre ad uccidere il proprio figlio. Premessa fondamentale è il fatto che raramente ci troveremo di fronte a madri spinte da un’unica motivazione personale.

Madre che impulsivamente maltratta il proprio figlio
Accennando brevemente alla diverse forme di maltrattamento (fisico e psicologico)ed in modo più specifico alle Patologie delle cure (incuria, ipercuria e discuria), il Complesso di Medea è classicamente riportato tra le forme di ipercuria –definita come eccessiva cura genitoriale verso il proprio figlio-, ma è anche una forma di discuria (la madre risponde ai bisogni del figlio non comprendendoli, ma sentendo e soddisfacendo i propri, è quindi un genitore non responsivo).

Spesso la madre che compie un figlicidio ha problemi familiari
economici, conflittuali con il partner, una famiglia di origine che a sua volta l’ha maltrattata, precedenti e/o attuali episodi di tossicodipendenza

Agire omissivo di alcune madri passive e negligenti nel proprio ruolo materno e per le quali il bambino minaccia la propria esistenza.
In questi casi il figlio spesso si prende cura di se stesso e si “adultizza” precocemente.

Vendetta della madre nei confronti del partner (Complesso di Medea vero e proprio)
per i quali nutre odio, gelosia, invidia e lo riversa sul figlio sia perché lo vede come prodotto del loro amore sia perché figura più facile da sottomettere perché fisicamente meno forte ed indifeso.

Esistono poi madri che uccidono figli indesiderati
per una gravidanza non voluta o perché associato a ricordi traumatici (esempio frequente è il figlio frutto di una violenza).

Madri che negano psicologicamente la gravidanza.
Succede così che la gestazione (i 9 mesi) avvengano normalmente e successivamente la madre decida di partorire nel bagno tramite una rapida espulsione.

Madri che ripetono nel loro figlio una violenza subita dalla loro madre.
Il modello psicodinamica definisce il particolare meccanismo di difesa come “identificazione con l’aggressore”.

Madri che uccidono il proprio figlio perché pensano di salvarlo.
E’ il caso di Marisa Pasini. Viene anche definito “omicidio pietatis causa” o “figlicidio altruistico”.

Madri che uccidono il proprio figlio per non farlo soffrire, ma che in realtà sentono il bambino come un fardello.
E’ questo il quadro tipico del così detto "omicidio compassionevole”.

Madri che prodigano cure affettuose al figlio ma che in realtà lo stanno subdolamente uccidendo.
Definita “Sindrome di Munchausen per Procura” che descrive una situazione in cui uno o entrambi i genitori inventano sintomi o segni fittizi nel figlio procurandogli a volte dei veri e propri disturbi, sottoponendoli successivamente ad una serie di esami e interventi e arrivando a danneggiarli e a ucciderli. Il nome deriva dal Barone Munchausen il quale intratteneva gli amici ospiti raccontando falsamente delle sue avventure. Si distinguono due forme, nelle quali quella “per procura” è riservata ai figli minorenni.
A Roma l’Ospedale Bambin Gesù denuncia circa 50 casi all’anno. Da un punto di vista psicologico è una particolare forma di ipercuria (ascrivibile all’interno delle patologie delle cure già descritte).

Questo complesso patologico è stato anche classificato secondo la tipologia del genitore, ad opera di due studiosi come Libow e Schreirer:
o Cercatori di aiuto; la malattia è immaginaria
o Responsabili attivi; la malattia è procurata
o Medico dipendenti

Secondo infine Nivoli, vi possono essere diverse variabili concausali in un figlicidio:
1.La madre prova un senso di ineguatezza nel proprio ruolo. Questo è dovuto in larga parte a non aver avuto un modello positivo materno da poter imitare.
2.La madre presenta spesso patologie acute. In questo caso tali cause sono in realtà delle aggravanti o fattori che precipitano un determinato evento (ad esempio: depressione post-partum, tristezza, incapacità a soddisfare le richiesta del bambino che piange)
3.Molto spesso la madre ha avuto delle situazioni problematiche quali situazioni di perdita, lutti o abbandono.

(marzo 2006)

LA SINDROME DELLA MADRE MALEVOLA


LA SINDROME DELLA MADRE MALEVOLA
Lo studio riguardante la Sindrome della Madre Malevola (Malicious
Mother Syndrome) viene dagli Stati Uniti ed è stato descritto da Ira Daniel Turkat.
L’autore introduce il suo articolo così: "Un divorziato ottiene l’affido dei figli e
l’ex-moglie gli brucia la casa. Una donna che era in guerra con il marito per
affido, compra ai figli un gatto pur essendo a conoscenza che il marito è allergico
a questi animali. Una madre obbliga i figli a dormire in macchina per ‘dimostrare’
che il loro padre li ha portati alla bancarotta. Queste azioni illustrano uno schema
di comportamento anomalo che si è manifestato sempre più frequentemente con
l’aumento del numero di divorzi di genitori con figli".
Turkat sottolinea che i media si sono spesso occupati di casi in cui i padri
divorziati non versano l’assegno di mantenimento fissato dal tribunale (da studi
fatti si è visto che a tre anni dal divorzio solo il 20% dei padri divorziati provvede
al pagamento dell’assegno di mantenimento), ma che non hanno mai dato
attenzione ai casi in cui vengono attribuiti ai padri innocenti comportamenti
perversi e questo a causa del fatto che non ci sono dati scientifici a riguardo.
La definizione proposta dall’autore abbraccia i seguenti modelli di
comportamento (dal primo al terzo sono specifici della Sindrome della madre
malevola nei casi di divorzio e verrà dato un esempio clinico; il quarto punto, che
riguarda il rapporto della sindrome in esame con altri disturbi mentali, verrà
discusso in modo più generale):
1. la madre che senza giustificazione punisce il marito da cui sta divorziando
o ha divorziato:
a) Tentando di alienare i figli dal padre: es. "la moglie di un medico
ha obbligato il figlio di 10 anni a richiedere i pasti gratis a scuola
per fargli credere che il padre li aveva fatti diventare poveri". Tali
comportamenti se hanno successo possono portare i figli ad odiare
il padre così tanto da non volerlo vedere per anni.
b) Coinvolgendo altri in azioni malevoli contro il padre: es. "una
madre che aveva perduto la custodia legale dei figli ha indotto la
segretaria della scuola del figlio ad aiutarla a rapire il bambino".
Tale modello implica la manipolazione di altre persone (esempio
che appartengono al nucleo familiare, conoscenti, i professionisti -
medici, psicologi, avvocati, ecc… - che si trovano ad avere
rapporti con la madre) da coinvolgere in azioni dolose contro il
padre; la persona manipolata è stata coinvolta nella rabbia della
madre, così che l’indignazione della persona ‘raggirata ’
contribuisce a creare un’atmosfera gratificante per la madre stessa.
c) Intraprendendo un contenzioso eccessivo: es. "una madre bellicosa
e irragionevole attaccava verbalmente il marito dovunque lo
incontrasse. Col tempo la reazione di lui è stata quella di ignorarla.
Allora lei ha portato il suo ex-marito davanti al giudice per
obbligarlo a parlarle". In questo modello la madre malevola tenta
di punire il marito con un eccesso di azioni legali.
2. la madre che tenta semplicemente di impedire:
a) Le visite regolari dei figli al padre: es. "una madre, che in
precedenza aveva aggredito fisicamente il marito quando questa
andava a prendere i figli, gli ha impedito di prenderli con sé anche
quando si è presentato con la polizia".
b) Le libere conversazioni telefoniche tra i figli e il padre: es. "ad un
padre che telefonava per parlare con i figli è stato detto che essi
non erano in casa, mentre lui sentiva in sottofondo le loro voci".
Nei casi in cui il genitore non può essere presente fisicamente, il
telefono è uno strumento utile per far mantenere il legame con i
figli. Quando a questi padri viene impedito anche il rapporto
telefonico, spesso alla fine smettono di telefonare ai propri figli e
così la madre malevola ha raggiunto il suo risultato.
c) La partecipazione del padre alla vita scolastica e alle attività
extracurricolari dei figli: es. "ad un padre sono state date
volutamente la data e l’ora sbagliate di un evento importante per il
figlio al quale la madre ha chiesto: ‘chissà perché tuo padre oggi
non è voluto venire a trovarti?’". Per mantenere un legame con i
figli sarebbe molto importante continuare a partecipare alle attività
che venivano svolte prima della separazione: attività sportive a
scuola, sport di gruppo ed eventi religiosi. Difficilmente le madri
che attuano tali comportamenti subiscono delle punizioni; questo
perché gli avvocati e i giuristi non possono occuparsi di tutti i casi
in cui al padre viene impedito il contatto con i figli.
La madre affetta dalla Sindrome della Madre Malevola agisce mettendo in
atto una sorta di boicottaggio al quale non è facile rispondere con delle sanzioni a
livello giuridico a meno che gli avvenimenti non si protraggono nel tempo in
maniera recidiva ed eclatante.
3. la madre che compie azioni malevole (schema pervasivo) come:
a) Mentire ai figli: es. "una madre in fase di divorzio ha detto alla sua
giovanissima figlia che il marito non era il suo vero padre, anche se
lo era". Questo comportamento può essere messo a confronto con
la PAS: la madre che causa la PAS può insinuare che c’è stata
violenza, mentre la madre malevola afferma falsamente che c’è
stata effettivamente violenza.
b) Mentire ad altri: es. "una madre furente ha chiamato al telefono il
presidente del luogo in cui il marito lavorava sostenendo
falsamente che questi usava beni dell’azienda per guadagno
personale e che usava violenza ai figli sul luogo di lavoro". In
questo caso la madre mente esplicitamente ad altre persone per
attaccare ulteriormente l’ex-marito. Il fatto di mentire è per gli
specialisti molto difficile da individuare.
c) Violazioni della legge: es. "nel corso della battaglia per la custodia
legale dei figli, una donna si è introdotta nella residenza del marito
ed ha trafugato dei documenti importanti".
4. Il disturbo non è specificatamente dovuto ad un altro disturbo mentale,
pur potendo coesistere con un altro disturbo mentale distinto.
Turkat afferma che i soggetti dei casi clinici sui quali si è basato il suo
studio non avevano mai ricevuto una diagnosi o cure precedenti per
disturbi mentali. In alcuni casi potrebbe sembrare un disturbo
dell’adattamento oppure un disturbo della personalità ma gli specialisti
non hanno mai avuto riscontro di ciò pur riscontrando il permanere di certi
comportamenti anomali.
Ovviamente la descrizione dei casi fatti da Turkat solleva diversi problemi
dal punto di vista clinico e legale. Infatti va sottolineato che le famiglie in cui si
presentano questi avvenimenti sono soggette a gravi episodi di stress e angoscia.
Purtroppo per la cura di tale sindrome non c’è chiarezza scientifica anche perché i
soggetti stessi non ammettono di avere problemi comportamentali. Infine per
quanto riguarda l’aspetto legale è stato osservato che spesso gli avvocati possono,
in maniera involontaria, incoraggiare i comportamenti anomali della madre
malevola, ma altre volte sono gli stessi avvocati che cercano di rafforzare questi
comportamenti così da avere come risultato un processo più complesso e di
conseguenza un proprio profitto economico.
Turkat inoltre fa notare che per quanto riguarda l’incidenza del disturbo,
esso si riscontra nelle madri perché fino ad ora non si sono mai osservati tali
comportamenti anomali nei padri. Questo però non esclude a priori la possibilità
che ci possano essere anche dei padri malevoli.
L’autore conclude che la Sindrome della Madre Malevola nei casi di
divorzio è un fenomeno sociale che riguarda i bambini, i genitori, gli avvocati, i
giudici e che per tale motivo sarebbe opportuno attuare un’accurata ricerca
scientifica e clinica così da poter orientare gli aiuti e i trattamenti .

giovedì 14 settembre 2006

Temi di discussione




Domanda
Salve, mi chiamo Chiara, ho 23 anni e studio psicologia presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza". Sto svolgendo delle ricerche, per un progetto di tesi, sulla Sindrome di Munchausen per Procura e avrei bisogno di sapere quali sono le implicazioni psicodinamiche di questa patologia. Inoltre, come si interviene quando ci si trova di fronte a questo genere di problema? Dove posso trovare delle informazioni e dei dati più specifici al riguardo? Spero di ricevere al più presto una sua risposta! Cordialmente
Risposta
Ciao Chiara, La sindrome di Munchausen per procura è una forma di abuso di un bambino nella quale chi abusa lo fa perché crede o tenta di far credere che tale bambino abbia una qualche forma di malattia che va repentinamente curata. Tale sindrome coinvolge, generalmente, i genitori di del bambino in un lungo periodo di abusi fisici. Vediamo, innanzitutto, cosa si intende per sindrome di Munchausen. Il barone di Munchausen (realmente esistito) è il personaggio di una storia di G.A. Burger che combatté a fianco dei Russi contro i Turchi. In seguito si ritirò in un castello e lì intratteneva i suoi ospiti con racconti e storie esagerate ed inverosimili. Da qui il riferimento per la sindrome, avvero l'invenzione ed esagerazione di fatti o sintomi clinici riportati da individui che si rivolgono costantemente alle cure mediche. Tale espressione fu utilizzata per primo da Asher nel 1951 e Meadow nel 1977 utilizzò per preimo l'espressione “sindrome di Munchausen per procura” in riferimento al fatto che uno dei genitori, generalmente la mamma, del bambino richiede continuamente aiuto a medici e ospedali, inventandosi o creando ad arte sintomi fisici. Nel DSM-IV-TR (2001) tale sindrome è indicata come “Disturbo fittizio per procura” e viene sottolineato come “La caratteristica essenziale è la produzione deliberata o la simulazione di segni o sintomi fisici in un'altra persona che è affidata alle cure del soggetto. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo, e il responsabile è la madre del bambino. La motivazione di tale comportamento viene ritenuta essere il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato”. Le caratteristiche dell'abusante saltano subito agli occhi, in quanto, generalmente, sono persone che hanno grande dimestichezza con la medicina (è stato riscontrato che molti di essi sono paramedici), sollecitano ed interagiscono in maniera continua e costante con funzionari ospedalieri. Appaiono molto accudenti e coinvolte nella cura del figlio,. Sembra, infine, che molti di loro abbiano avuto esperienze simili durante la loro infanzia. L'altro genitore (generalmente il padre), invece, raramente ha comportamenti di abuso sul figlio. Spesso indifferenti e passivi, non si ritagliano (o è permesso loro) un ruolo primario nella cura delle malattie del figlio. Le loro visite in ospedale non sono frequenti ed inoltre non è capace di fermare l'abuso del figli da parte della madre. Utilizzando la teoria dell'attaccamento di Bowlby, questo tipo di relazione madre-bambino può portare ad un legame di attaccamento di tipo D, avvero disorganizzato-disorientato in cui il bambino si trova di fronte ad un paradosso affettivo: la persona che lo dovrebbe accudire è la stessa che invece lo maltratta e lo”soffoca” con eccessive cure ed attenzioni, e nel caso di sua ribellione per questi comportamenti, viene colpevolizzato e maltrattato in misura maggiore. La reazione di questi bambini è quella di una iper-attenzione ed iper-vigilanza sul proprio comportamento e su quello della madre, con il risultato di avere un bambino sempre spaventato e che non riconosce o evita di far emergere le proprie emozioni, ponendo le basi, in tal modo, ad uno stile affettivo piatto e poco responsivo alle attenzioni altrui. All'indirizzo: La Sindrome di Munchausen troverai una spiegazione psicologica della sindrome di Munchausen, in chiave sistemica, data dal Dr. Paolo Chellini La presa in cura del bambino è attuabile attraverso due percorsi: a. La tutela b. La terapia.
La tutela Va realizzata coinvolgendo la Procura della Repubblica, il Tribunale per i Minorenni e il Servizio Sociale competente; vanno utilizzati gli strumenti e prese le iniziative che proteggano il bambino dalla reiterazione dell'abuso e da pressioni psicologiche che possono compromettere la rivelazione (eventualmente sollecitando il suo allontanamento dalla famiglia ed il suo ingresso in comunità dotate delle necessarie risorse professionali ed umane, o l'allontanamento del presunto abusante se la famiglia è protettiva). parimenti vanno evitati accanimenti diagnostici troppo invasivi (interviste ripetute,trattamenti coatti) volti ad ottenere rivelazioni più complete. L'elaborazione di un progetto terapeutico è successiva alla formulazione della diagnosi. Una volta che sia stata accertata la situazione di rischio o di abuso conclamato, e sia stata valutata positivamente la trattabilità del bambino e della famiglia, va realizzato un progetto di terapia integrata medica e psicologica.
La terapia medica Ha come obiettivo la cura delle lesioni e delle eventuali patologie conseguenti all'abuso. In alcuni casi potrebbe rivelarsi molto utile un monitoraggio periodico delle condizioni fisiche e di accrescimento dei bambini, realizzato dal pediatra di base in collaborazione con le strutture ospedaliere.
La terapia psicologico – psichiatrica La presa in carico è rivolta sia al bambino che alla famiglia, e, se necessario, fornendo consulenza alla scuola. Si compone di una psicoterapia individuale per il bambino e di una terapia della famiglia. Nei casi di separazione o di divorzio l'intervento è rivolto ai due nuclei familiari. Quando si tratta di bambino molto piccoli, o comunque, in età pre-scolare, la terapia può consistere in incontri del terapeuta con la coppia madre-bambino e con quella padre-bambino. Questo tipo di intervento va effettuato soprattutto in quei casi in cui il bambino deve recuperare il rapporto con un genitore o quando i genitori devono essere aiutati ad acquisire una loro competenza genitoriale.
Informazioni più complete sull'argomento di tuo interesse le puoi trovare visitando i siti:
Linee Guida per la Prevenzione e Cura di Violenze e Abuso sui Minori
Gruppo di lavoro S.I.N.P.I.A. sugli abusi in età evolutiva
Mamme folli o senza cuore?
Ti indico, infine, un libro del 2001 dal titolo: La sindrome di Munchausen per procura AA. VV. Costo € 40.80 Editore: Centro Scientifico Editore. Presentazione Il volume presenta una delle sindromi sinora meno conosciute o facilmente individuate di abusi infantili. Solitamente condotti dalle madri, questi tipi di abusi vengono spesso confusi con malattie di vario genere, tutte persistenti o recidive o croniche e che spesso diventano mortali. Motivate dalla necessità di sentirsi al centro dell'attenzione, le madri affette da questa sindrome provocano malattie o ferite o avvelenamenti nei loro figli, e in alcuni casi arrivano ad indurne la morte, per poter svolgere apparentemente il ruolo di madri devote e disponibili a dedicare la loro vita alla malattia dei figli. Questo libro esamina le cause, le manifestazioni e le conseguenze di questa grave forma di abuso rispetto al quale ci sono ancora molti aspetti da analizzare. Nella speranza di esserti stato utile ti faccio un grosso in bocca al lupo.
Risponde
Mario Poli, Dottore in Psicologia




Domanda
Gradirei mi consigliaste siti su cui è possibile visionare materiale sulla "Sindrome di Munchausen"al fine di realizzare una tesi sull'argomento. Sicuro della vostra disponibilità, porgo distinti saluti. Grazie
Risposta
Caro Giuseppe, innanzitutto, a riguardo della sindrome di Munchausen, può essere curioso saperne in qualche modo l'etimologica: tale sintomatologia prende il nome dal bizzarro “barone di Maunchausen”, realmente esistito, personaggio peraltro di una storia di G.A.Burger che combatté a fianco dei Russi contro i Turchi..egli si ritirò in un castello e lì intratteneva i suoi ospiti con racconti e storie esagerate ed inverosimili. Da qui, quindi, il riferimento per la sindrome, ovvero l'invenzione ed esagerazione di fatti o sintomi clinici riportati da individui che si rivolgono costantemente alle cure mediche. Si tratta dunque di un terribile disordine mentale attraverso il quale la madre simula, per così dire, la malattia del figlio raccontando storie fantastiche e farneticando su sintomi fittizi..il tutto per accaparrarsi trattamenti che le chiariscano la malattia difficile da diagnosticare. Potremmo, in definitiva (visto che tale sintomatologia può portare addirittura alla morte del figlio), pensare ad un disturbo tale per cui la madre sembra essere orribilmente ‘contro' il figlio, ma non è così semplice. Tutta la sintomatologia della sindrome di Munchausen rappresenta l'esasperazione di personalità che necessitano di un senso idilliaco di controllo della situazione: dunque, come peraltro dice il dott. Paolo Chellini, non tanto odio verso il figlio, quanto piuttosto amore patologico..non bisogno di controllo totale sul figlio quanto semmai sulla situazione a suo riguardo. In proposito a ciò puoi intanto leggerti, appunto, questa risposta del dott. Chellini, da Vertici Network, che analizza la questione attraverso un'ottica soprattutto sistemica:
La sindrome di Munchausen
La letteratura dice che raramente si tratta di donne con una vera e propria malattia mentale: si possono dire affette da Disturbo della personalità Istrionico, Borderline, Passivo-Aggressivo, Narcisistico, Paranoide.. e in qualunque modo si voglia etichettare la questione si tratta comunque di donne che combattono la sensazione interna di vuoto assumendo quel ruolo di madre devota e mega pronta al sacrificio: la malattia serve a queste donne per crearsi una sorta di personaggio utile e, per loro, indispensabile per colmare un Io fragile dall'autostima più che incerta. Può esserti utile anche questa risposta del Dott. Mario Poli, sempre da Vertici Network:
La sindrome di Munchausen
Nel seguente link, invece, puoi trovare un'articolo a riguardo tratto da LA REPUBBLICA SALUTE, n.° 419 - 30 settembre 2004:
La sindrome di Munchausen
Alcuni aricoli in inglese sull'argomento puoi trovarli qui:
Dr. Marc Feldman's Munchausen Syndrome, Malingering, Factitious Disorder, & Munchausen by Proxy Page
Un testo su tutti: La sindrome di Munchausen per procura Autore Levine A.; Sheridan M. S. Prezzo € 40,80 Dati 500 p. Anno 2001 Editore Centro Scientifico Collana Attualità in medicina e psicologia Descrizione: Il volume presenta una delle sindromi sinora meno conosciute o facilmente individuate di abusi infantili. Solitamente condotti dalle madri, questi tipi di abusi vengono spesso confusi con malattie di vario genere, tutte persistenti o recidive o croniche e che spesso diventano mortali. Motivate dalla necessità di sentirsi al centro dell'attenzione, le madri affette da questa sindrome provocano malattie o ferite o avvelenamenti nei loro figli, e in alcuni casi arrivano ad indurne la morte, per poter svolgere apparentemente il ruolo di madri devote e disponibili a dedicare la loro vita alla malattia dei figli. Questo libro esamina le cause, le manifestazioni e le conseguenze di questa grave forma di abuso rispetto al quale ci sono ancora molti aspetti da analizzare. In bocca al lupo per la tua tesi Giuseppe!
Risponde
Andrea Migliarini, Dottore in Psicologia
Domanda
Buon giorno, volevo sapere cosa spingeva un genitore ad avvelenare lentamente il proprio figlio (sindrome di Munchausen). Non posso pensare che sia un gesto nato da odio nei confronti di un bambino non voluto. Potrebbe trattarsi di un voler a tutti i costi, esercitare un controllo totale sulla vita del proprio piccolo? Una specie di cordone ombelicale "infinito", dove, una madre, inconsciamente vuole un potere totale?Grazie.
Risposta
Gentile Mara,la Sindrome di Munchausen per procura è chiaramente una manifestazione di un sistema familiare patologico al cui interno le dinamiche intersoggettive hanno una connotazione di invischiamento ossessivo. In altre parole, sono d'accordo con Te nell'ipotizzare che dietro questa sindrome non ci sia odio nei confronti del bambino, ma piuttosto una sorta di amore patologico, non tanto per il bambino in se, ma per la situazione che esso con la sua “presenza” genera. A differenza di Te, non cedo che si tratti di voler controllare il bambino direttamente ma, come ho accennato prima, la situazione. Creo che sia possibile e utile, per la nostra comprensione, analizzare questa terribile sindrome attraverso i dettami della Terapia Sistemica. La ricerca clinica su queste tipologie di famiglie evidenzia come i genitori siano persone con bassi livelli di autostima, grosse difficoltà nei rapporti interpersonali, una forte diffidenza nei confronti delle novità, etc. Da quanto detto è ipotizzabile che queste famiglie, nel loro insieme, rappresentino per le figure genitoriali (credo che sia corretto allargare la dinamica anche a più generazioni: nonni, zie, etc.) delle nicchie collusive di tranquillità da mantenere a tutti costi. Proviamo ad immaginare il “ruolo” del bambino all'interno di una dinamica simile: due soggetti con una struttura di personalità poco differenziata (cioè con una scarsa capacità di autodeterminazione) dalle rispettive famiglie di origine creano un nuovo nucleo familiare. La nascita di un figlio rappresenta un momento di passaggio ricco di emozionalità con un forte riconoscimento sociale, a questo punto, la comunicazione intrafamiliare comincia ad essere completamente incentrata sul nascituro, nonni, zii e parenti vari iniziano a rinforzare la madre e indirettamente il padre nel loro nuovo ruolo. Proviamo ad immaginare che questa donna, per la prima volta, senta di avere un ruolo proprio all'interno della funzione di accudimento del figlio. La sua identità inizierà a strutturarsi nell'immagine della madre accudente che potrà dare il massimo di se nei momenti di malattia del figlio, quando tutti la interpelleranno per vere notizie sulla sua salute. Penso, che a questo punto, ci siano delle buone probabilità che questo tipo di comportamento così gratificante sia un qualcosa che inconsciamente possa essere ricercato dalla madre. A questo punto, qualsiasi spinta di autonomia esplorativa del bambino sarà vissuta dalla madre come perdita del proprio status sociale che potrà essere riconquistata solo nei momenti di malattia. Posso supporre, a questo punto, che come meccanismo di difesa dall'ansia pervasiva che la madre proverà nella perdita del suo stato di soggetto accudente si potrà generare una sorta di proiezione della realtà idealizzata. A questo punto le spinte evolutive del bambino si trasformeranno in segni di malattia che solo Lei potrà vedere e curare, in una sorta di escalation dove la relazione con il figlio acquisterà per Lei e purtroppo, in alcuni casi, per tutta la famiglia una sorta di vincolo delirante e invischiante. Con questo non voglio dire che la dinamica da me descritta sia una regola per l'emersione di questa sindrome, ma purtroppo credo che molte di queste interazioni patologiche che si possono generare all'interno delle famiglie, possano essere riconducibili ai fattori da me descritti. Spero di non avere semplificato troppo la descrizione di questa terribile sindrome che la cronaca ci ha riportato all'attenzione, ma credo che questa descrizione relazionale possa avere un qualche valore di realtà. Ricordiamoci sempre quello che la teoria della complessità ci fa notare con il “Principio di equifinalità”: cioè si può partire da presupposti diversi e ottenere risultati uguali, o partire da presupposti uguali e ottenere risultati diversi. Tutto questo per dire che quello che ho scritto è solamente una ipotesi esplicativa di una realtà molto complessa, ma soprattutto molto dolorosa per chi ci è immerso.
Risponde
Paolo Chellini, Psicologo




Ieri sera nella puntata del seguitissimo Dr House Medical Division si è parlato della Sindrome di Munchausen: una paziente si iniettava volutamente un farmaco che simulasse l'alterazione dei valori del sangue oltre a procurarsi dei lividi sul corpo.La sindrome è fra le patologie psichiatriche più complesse e assurde e spesso sfiora il franco comportamento criminale.Munchausen è il nome di un barone realmente esistito (1720-1797), che combatté a fianco dei Russi contro i Turchi e, una volta ritiratosi nel suo castello, si rese protagonista di racconti completamente inventati, e francamente surreali, sulle sue gesta, attribuendosi prodezze e atti eroici mai compiuti. L’espressione "Sindrome di Munchausen" fu invece utilizzata clinicamente per la prima volta da R. Asher nel 1951 su Lancet per indicare soggetti che simulavano dei sintomi fisici o se li provocavano volontariamente sottoponendosi a interminabili trafile ospedaliere e diagnostiche e persino a interventi chirurgici multipli anche invasivi.Il DSM IV definisce la sindrome come disturbo cronico fittizio con segni e sintomi fisici predominanti.Secondo una ricerca condotta un decennio fa, più del 5 per cento dei contatti tra medico e paziente avverrebbero per sindrome di Munchausen, che è cosa diversa dall’ipocondria configurandosi come un tentativo deliberato di ingannare il personale medico e paramedico.La patologia nasce quasi sempre dall’esigenza del paziente di attrarre l’attenzione su di sé, di essere oggetto di cura e premura da parte dei curanti e dei familiari e di “esistere”, agli occhi del proprio mondo relazionale, come "un eroe della malattia".Quando i trattamenti a cui il paziente si sottopone sono invasivi o debilitanti è possibile rintracciare una componente masochistica e autolesionistica.Una variante particolarmente perniciosa della malattia si verifica quando il paziente determina la sintomatologia patologica in un'altra persona, spesso si tratta di madri nei confronti dei figli.In questo caso la sindrome prende il nome di Sindrome di Munchausen per procura o sindrome di Polle dal nome vero del figlio di Munchausen morto in tenera età in circostanze sospette. L'espressione "Sindrome di Munchausen per procura (MSbP)" fu usata per la prima volta nel 1977 sempre su Lancet dal pediatra inglese Roy Meadow, per descrivere appunto madri che simulavano o provocavano malattie nei figli allo scopo di attrarre su di sé l’attenzione degli altri.Le modalità dell'abuso infantile erano e sono molteplici e fantasiose, talvolta mortali.Sono state descritte somministrazioni di lassativi per produrre diarree, pseudoematurie (spesso al momento del ciclo mestruale materno), pseudoinfezioni delle vie urinarie da introduzione di pus nelle urine, pseudoglicosurie o anche ipoglicemie da iniezione di insulina, ipernatriemie da apporto abnorme di sale, avvelenamenti farmacologici.


Gli Autori dopo aver inquadrato da un punto di vista teorico la Sindrome di Munchausen per Procura quale disturbo fittizio per Procura secondo le indicazioni fornite dal DSM-IV, offrono una disamina delle varie forme nelle quali si manifesta tale sindrome, dei principali e più comuni metodi attraverso i quali le madri procurano le malattie ai figli. Di seguito viene descritto un caso sospetto di Sindrome di Munchausen per Procura giunto all’attenzione dei sanitari dell’Unità Operativa di Pediatria del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena; i dati relativi sono stati raccolti attraverso la ricerca e l’analisi attenta dei vari documenti reperibili e delle cartelle cliniche.
L’esame dei casi riportati in letteratura evidenzia da una parte la scarsa conoscenza dell’argomento da parte dei sanitari e la conseguente difficoltà di diagnosi, dall’altra una ulteriore difficoltà ovvero l’inquadramento in termini psichiatrici o meno del comportamento della madre, dal momento che tale sindrome appartiene certamente al sapere clinico.
Gli Autori, infine, evidenziano la necessità di una maggiore attenzione verso i bisogni formativi espressi dai soggetti che a vario titolo e per loro stesso mestiere sono coinvolti.
LA SINDROME DI MUNCHAUSEN PER PROCURA:
INQUADRAMENTO E ANALISI DI UN CASO
Anna Coluccia* - Lore Lorenzi**
* Professore di Criminologia e Difesa Sociale, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Siena ** Specialista in Criminologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Siena
KEYWORDS
Violence, minors, prevention
PAROLE CHIAVE
Violenza, minori, prevenzione
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1. INQUADRAMENTO TEORICO DEL PROBLEMA
La Sindrome di Munchausen per procura è da sempre stata oggetto di studio
soprattutto per le particolari modalità di estrinsecazione e per il coinvolgimento di
bambini in qualità di pazienti[1][2][3]. Proprio per la stessa natura, talvolta incomprensibile,
dei sintomi, tale sindrome viene associata alla Sindrome di Munchausen, differenziandosi da quest’ultima solo per la diversità dei soggetti coinvolti; la Sindrome di Munchausen, infatti, ha come protagonista un adulto che si finge malato inventando un corteo di sintomi evocatori di quadri patologici veri
e propri con la conseguente creazione di comportamenti assolutamente sconcertanti.
Tale Sindrome trova la sua prima definizione ad opera dello studioso
Asher[4] nel 1951 che la utilizza appunto in riferimento a quelle persone che si
rivolgono continuamente e con insistenza ai medici ed agli ospedali adducendo
disturbi frequenti e spesso inesistenti fino a riportare conseguenze estremamente
dannose a causa degli accertamenti sanitari e degli interventi chirurgici cui si sottopongono.
La Sindrome di Munchausen per procura (da ora in poi SMP), invece,
si caratterizza per il coinvolgimento di un adulto, verosimilmente un genitore, più
spesso la madre, che sottopone il figlio o i figli a lunghe e rischiose analisi o ad
accertamenti diagnostici, a volte, decisamente invasivi per l’accertamento della
patologia “raccontata” all’operatore sanitario di turno; tale situazione può arrivare
sia a danneggiare gravemente l’incolumità fisica e psicologica della vittima, figlio,
sia esitare nella morte di quest’ultimo; l’autore della SMP, comunque, fa assumere
alla vittima lo stile di vita del malato.
La scelta della terminologia Sindrome di Munchausen per procura
(Munchausen sindrome by proxy) è accreditata dagli studiosi[5][6] al pediatra Roy
Meadow dell’ospedale di St. James a Leeds, in Inghilterra, che nel 1977 pubblica
una ricerca nella quale descrive due casi di SMP riguardanti situazioni di creazione
di malattie da parte di madri. Il primo caso descritto racconta la storia di una
madre ritenuta responsabile di introdurre sangue nelle urine della figlia di pochi
anni, in quantità tale da alterare in maniera inspiegabile i valori degli esami clinici
inducendo così i medici a sottoporre la bambina a numerosi trattamenti sanitari.
Il secondo caso, invece, riguarda una madre che somministra al figlio dosi tossiche
di sale da cucina, costringendolo così a ripetuti ricoveri ospedalieri e ad accertamenti
di ogni genere, che portano ad una guarigione in fase di ospedalizzazione
con relativa recrudescenza dei disturbi contestualmente al ritorno in famiglia; il
caso si conclude, secondo il racconto del pediatra, con la morte del minore.
Nonostante altri Autori quali Ackerman, e Burman, Stevens[7][8] abbiano
introdotto come termine per definire la Sindrome di Munchausen per procura,
quello di Sindrome di Polle in riferimento al nome del figlio del Barone di
Münchausen, morto in circostanze strane all’età di un anno, l’accezione ormai
accreditata è stata Munchausen sindrome by proxy.
Meadow fornisce una lettura dei casi assai interessante offrendo una serie di
utili indicazioni sulle caratteristiche comportamentali che tipicizzano l’autore della
SMP riscontrabili poi, nella letteratura medica successiva, quali atteggiamenti di
collaborazione con il personale medico durante la degenza dei figli, dimostrazione
63 STUDI E RICERCHE
di sentimenti di riconoscenza per le cure che il personale offre al figlio uniti a sentimenti
di gratificazione per le attenzioni che il personale sanitario comunque presta
loro.
Il DSM-IV[9] non si esime dall’esprimere la difficoltà diagnostica di tale sindrome;
nonostante, infatti, la malattia oggi conosca un’importante attenzione da
parte degli addetti ai lavori, rimane poco conosciuta soprattutto perché i protagonisti
di tale comportamento hanno una straordinaria capacità di simulazione. La
Sindrome, pur soffrendo delle iniziali difficoltà di inquadramento nosografico, ha
ottenuto una collocazione scientifica nel DSM-IV che, considerandola espressione
di un disturbo del comportamento, la inserisce all’interno del “Disturbo Fittizio per
Procura”. Il Manuale, inoltre, tenta, non senza sforzo proprio per la mancanza di
una cornice teorica entro la quale inserire la sindrome, l’individuazione di criteri
capaci di aiutare la rappresentazione nosografica della malattia, criteri che sono
individuati nella produzione intenzionale e nella simulazione di segni o sintomi
fisici o psichici in un bambino generalmente piccolo da parte di un genitore, più
spesso la madre. Il responsabile, quindi, “fabbrica” nella vittima i sintomi di una
malattia vera e propria oppure “fortifica” sintomi già presenti. L’ultima edizione
del Manuale[10] a questo proposito, descrive il Disturbo Fittizio per Procura in tal
modo: “La caratteristica essenziale è la produzione deliberata o simulazione di
segni o sintomi fisici o psichici in un’altra persona che è affidata alle cure del soggetto.
Tipicamente la vittima è un bambino piccolo, e il responsabile è la madre del
bambino. La motivazione di tale comportamento viene ritenuta essere il bisogno
psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato”.
I metodi impiegati dalle madri nel tentativo di procurare la malattia nei propri
figli sono molteplici e talmente ben predisposti che si rende estremamente difficile
da parte dei medici e dello staff ospedaliero in generale, capire le innumerevoli
malattie “fittizie” create appositamente a danno delle piccole vittime. Meadow[11]
tenta già nel 1982 uno schema semplificativo di erronee diagnosi formulate in capo
alla vittima prima della scoperta della definitiva diagnosi di SMP (Tav.1).
Le tecniche usate dall’autore della SMP sono assai varie e spesso alcune di
queste assumono tratti di crudeltà vera e propria; gli Autori Franzini e
TAV. 1 - Diagnosi erronee più comunemente poste prima della definitiva diagnosi di SMP
- Malattie granulomatose croniche
- Diabete mellito
- Grande male epilettico
- Emosiderosi polmonare
- Rettocolite ulcerosa
- Disordini ipofisari
- Encefalopatia
- Malattia celiaca
- Fistola retto-vescicale
- Osteomielite
- Porfirie
- Dermatite herpetiforme
64 DIFESA SOCIALE - N. 4, 2004
Grossberg[11] descrivono casi di bambini cui sono stati iniettati feci, urina, saliva
ed ancora flora fecale e microbi vaginali per via endovenosa. La letteratura registra
inoltre, casi nei quali alle vittime sono state somministrate sostanze di varia natura
sia di uso domestico quali il sale da cucina, il pepe, l’acqua, lo zucchero in quantità
tali da risultare gravemente dannosi, sia sostanze medicinali quali i tranquillanti
e i sedativi, i lassativi e i diuretici, l’insulina ed ancora sostanze quali gli olii
minerali, lo sciroppo di ipecacuana, il veleno per topi, l’arsenico. A volte accade
che il protagonista del comportamento munchausiano somministri alla vittima
sostanze medicinali utilizzate abitualmente da membri della famiglia quali gli ipertensivi;
quella di stornare i farmaci dal loro normale uso terapeutico (es. ipertensivi
usati da un parente) per destinarli alla vittima rappresenta, infatti, una ulteriore
modalità di creazione di sintomi di malattia.
Riunire in un’unica tavola di riferimento le sostanze adoperate per la creazione
di un quadro patologico ad hoc è assai difficile, una sintesi di quelle maggiormente
utilizzate per indurre avvelenamento ci è offerta nel 1996 dagli studiosi
McClure, Davis, Meadow, Sibert[12] come riportato nella tavola riassuntiva
(Tav.2):
Dall’esame della letteratura emergono ancora quadri di maltrattamenti al bambino
particolarmente violenti e pericolosi come le punture di spillo nel viso e nel
corpo allo scopo di causare sanguinamenti, le lesioni facciali provocate utilizzando
le unghie o strumenti di varia natura, il soffocamento attuato con la mano o con
un cuscino posto sul viso del bambino, la deliberata sottoalimentazione in un
ambiente casalingo sporco e trascurato, l’induzione di attacchi epilettici o di perdita
di coscienza attraverso la pressione esercitata su una grossa arteria del collo.
Inoltre si registrano forme indirette e/o “sofisticate” attraverso le quali si arrecano
danni al bambino come quella di manipolare i campioni destinati alle analisi di
laboratorio, alterando, ad esempio, la quantità di sangue nei campioni di urine che,
solo successivamente attraverso un confronto del gruppo sanguigno, viene riconosciuto
non appartenenti a quel soggetto[13].
Una classificazione più ampia e dettagliata è proposta dallo psichiatra
Bools[14] il quale descrive dieci categorie di metodi con i quali vengono posti in
essere comportamenti munchausiani (Tav. 3).
Tav. 2 - Più comuni sostanze usate per indurre avvelenamento
- Anticonvulsivanti
- Oppiacei
- Paracetamolo
- Benzodiazepine
- Antidepressivi triciclici
- Sale
- Antistaminici
- Monossido di carbonio
- Altre sostanze
65 STUDI E RICERCHE
Di seguito elenchiamo i più comuni metodi con i quali può realizzarsi il quadro
patologico rientrante nella SMP secondo la classificazione dello studioso
Bools:
1) racconti narrati dall’autore della SMP di apnea: si fa riferimento ad episodi che
vanno dagli attacchi epilettici fino agli stati che necessitano della rianimazione
cardio-polmonare; tali eventi vengono sempre minuziosamente descritti al
medico dall’autore della SMP ma non supportati da alcun tipo di prova, neanche
dalla conferma di un testimone visto che, di solito, si verificano alla presenza
del solo genitore munchausiano.
1b) altri racconti: si fa riferimento a fabbricazioni di malattie di varia natura quali
allergie, ematuria, problemi respiratori, sanguinamenti, vomito, affezioni
gastrointestinali;
2) falsificazione dei campioni da analizzare e dei documenti: questo metodo
implica che il protagonista del comportamento munchausiano abbia ottime
conoscenze mediche;
3) avvelenamento: questo metodo di fabbricazione comprende l’utilizzo di
sostanze quali i lassativi, i tranquillanti, gli analgesici non-oppiacei, i farmaci
per il diabete, il sale comune, gli antidepressivi oppiacei e i veleni non medicinali;
4) soffocamento: questo metodo consiste nell’ostruzione delle vie aeree superiori
con conseguenti crisi apnoiche; come affermato da Merzagora Betsos[15],
riguardo tale metodo, si sono ipotizzate delle correlazioni tra la SMP e la SIDS
(Sudden Infant Death Sindrome ovvero Sindrome da Morte Infantile
Improvvisa);
5) produzione di sintomi attraverso metodi diretti: questo metodo consiste nell’introduzione
di materiale infetto per via endovenosa: sale, urine, feci, acqua,
ecc.;
6) produzione di sintomi attraverso la non somministrazione di nutrimenti alimentari
e di medicine: questo metodo comprende le restrizioni dietetiche, la
mancata somministrazione di farmaci essenziali per la salute del bambino o la
mancata osservanza dei controlli medici indispensabili al bambino;
Tav. 3 - Più comuni metodi di abuso nella SMP
- Soffocamento per ostruzione delle vie aeree
- Avvelenamenti con anticonvulsivanti, oppiacei, lassativi, diuretici, barbiturici, teofillinici, codeina,
arsenico
- Avvelenamento con sale, zucchero, acqua
- Manomissione dei campioni da analizzare o delle cartelle cliniche
- Introduzione di frammenti di varia natura nelle basse vie urinarie
- Induzione di febbre con l’introduzione di sostanze immunizzanti
- Drenaggio di grosse quantità di sangue
- Lesioni del cuoio capelluto, degli arti, del volto con spilli o con percosse
- Colorazione della cute (con betadine) per simulare l’itterizia
- Sanguinamenti indotti manualmente o con l’utilizzo di anticoagulanti
66 DIFESA SOCIALE - N. 4, 2004
7) fabbricazione di disordini psichiatrici: riguardo questo metodo in letteratura
sono riportati casi nei quali le madri hanno fatto ricoverare i figli in unità psichiatriche
riferendo storie di allucinazioni e comportamenti bizzarri di interesse
psichiatrico[16];
8) problemi fittizi in gravidanza: questo metodo comprende travagli simulati,
sanguinamenti inventati, maltrattamenti al feto;
9) fortificazione dei sintomi alla presenza di una malattia fisica vera: tale metodo
viene considerato come una variante di SMP e si caratterizza per l’esaltazione
dei sintomi di una malattia vera e propria fino a renderli esagerati.
Molti studi concentrano i loro sforzi sull’individuazione dei comportamenti
dei protagonisti attivi della SMP, comportamenti in presenza dei quali nei sanitari
dovrebbe sorgere il sospetto di trovarsi di fronte a tale sindrome; Agosti,
Gentilomo, Merzagora[17] combinando i criteri di Eminson e Postlethwaite, di
Meadow, di Rosen et al. hanno tentato la sintesi di tutta una serie di situazioni la
cui presenza dovrebbe far nascere, appunto, almeno il “dubbio” di un caso di SMP:
- segni e sintomi bizzarri, che non si trovano in alcuna malattia conosciuta o che
sono incongrui rispetto a quadri patologici noti, difficilmente verificabili e in
numero eccessivo (più di cinque ma anche più di dieci sintomi diversi);
- il trattamento non ha alcuna efficacia;
- segni e sintomi compaiono solo quando i genitori (per lo più la madre) sono soli
con il bambino;
- il genitore ha o esibisce qualche conoscenza di medicina;
- il genitore ha un comportamento troppo controllato rispetto alla gravità dei problemi
del bambino ovvero, secondo Eminson e Postlethwaite[18], è la continua
ricerca di aiuto medico nonostante le rassicurazioni dello staff medico che deve
mettere in sospetto;
- il genitore stabilisce relazioni fin troppo strette e cordiali con i membri dello
staff ospedaliero;
- il genitore non lascia mai il figlio da solo durante la degenza;
- vi sono precedenti di malattie insolite o di morti strane nei fratelli o comunque
in famiglia.
E’ intenso lo sforzo da parte della letteratura scientifica di individuare indicatori
diagnostici delle situazioni munchausiane; oltre ai comportamenti sopra elencati
è facilmente individuabile un’altra caratteristica del genitore ovvero quella di
essere “itinerante sanitario”:egli inizia un percorso sanitario il cui scopo principale
è quello di evitare la relazione terapeutica con una sola struttura sanitaria e di
conseguenza cambiare più interlocutori sanitari; le “peregrinazioni” infatti sembrano
motivate dalla necessità, una volta che gli accertamenti hanno escluso patologie
vere e proprie oppure dopo che gli interventi chirurgici hanno esaurito richieste
e risposte terapeutiche, di andare alla ricerca di un ambiente nuovo nel quale
poter recuperare ex novo la credibilità di paziente[19]. Quanto alle conseguenze
prodotte sulle vittime, esse possono essere molteplici; il ricorso continuo ad accertamenti
diagnostici talvolta molto invasivi, a cure di qualunque natura, ad inter-
67 STUDI E RICERCHE
venti chirurgici come anche la somministrazione di sostanze dannose come sopra
detto, possono certamente procurare danni fisici fino naturalmente alla morte; non
vanno però tralasciate le conseguenze di natura psicologica di tale maltrattamento
verificabili anche a lungo termine. Come ben evidenziato da Merzagora
Betsos[20], nei bambini vittime della sindrome si possono presentare anche dopo
alcuni anni dai fatti problemi quali serie difficoltà di apprendimento e di concentrazione,
problemi comportamentali a scuola e in casa, problemi a livello emotivo,
incubi notturni, sindrome ipercinetica, sintomi propri del Disturbo Post-traumatico
da stress; si riscontrano inoltre, immaturità, relazioni simbiotiche con le madri,
aggressività. Infine, soprattutto se la Sindrome coinvolge gli adolescenti, non è
raro che questi ultimi sviluppino sintomi di conversione fino a comportamenti di
vera e propria collusione con le madri in una sorta di folie à deux sviluppando
anche loro una Sindrome di Munchausen.
Riguardo poi all’inquadramento della SMP in una apposita icona penalistica, le descrizioni fenomenologiche dei comportamenti munchausiani fanno ritenere di poterla inserire nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p. che disciplina il reato di maltrattamenti in famiglia. Anche la maggioranza degli studiosi[21][22] è concorde nel ritenere che la SMP possa essere inquadrata da un punto di vista legislativo nell’ambito dell’art. 572 c.p. come speciale forma di abuso e maltrattamento sui minori sulla base appunto, delle conseguenze estremamente lesive arrecate alle vittime.
2. DESCRIZIONE DI UN CASO SOSPETTO DI SINDROME DI MUNCHAUSEN
PER PROCURA
Di seguito riportiamo un caso inquadrabile nell’ambito della SMP osservato nell’Unità Operativa di Pediatria del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena.
I dati relativi sono stati raccolti attraverso la ricerca e la disamina dei vari documenti
reperibili e delle cartelle cliniche. S., la vittima, nata nel 1983 proviene da una regione del Sud-Italia. I genitori hanno un’età compresa tra i 35 e i 40 anni; la madre fa la casalinga e il padre di origine straniera fa l’impiegato. S. ha una sorella di due anni più grande che, in base a quanto riferisce la madre, sembra essere in buona salute. S. presenta un normale sviluppo psicomotorio e un normale accrescimento staturo-ponderale, non soffre di patologie particolari fino a quando nel maggio 1992 all’età di 9 anni ca. iniziano a verificarsi alcuni episodi; al ritorno da scuola, infatti, la bambina presenta alcune macchie eritematose diffuse al torace che rendono necessario l’intervento del medico di famiglia. Dopo alcune ore dalla visita la bambina comincia a lamentare cefalea ed epistassi, quindi il medico curante, nuovamente interpellato dalla madre, consiglia di effettuare analisi di laboratorio.
Durante la notte la sintomatologia si attenua ma riprende il mattino successivo con intensificazione dell’epistassi cui si aggiungono, secondo quanto riferito dalla madre, dispnea ingravescente e tumefazione al collo. Di fronte all’insorgenza di tali patologie la madre consulta un pediatra che diagnostica una crisi ipertensiva e predispone ricovero d’urgenza nel vicino Pronto Soccorso dove viene eseguita una TAC al cranio di cui la madre non è in grado di fornire il referto. Dopo le dimissioni la bambina viene sottoposta per alcune settimane a monitoraggio con apparecchio Holter pressorio dal quale non si evidenzia alcuna variazione significativa della pressione arteriosa; anche gli elettroencefalogrammi effettuati nello stesso periodo risultano nella norma. Nei mesi successivi, però, la madre riferisce che Silvia lamenta nuovamente cefalea accompagnata da epistassi e da uno stato di facile affaticabilità.
Nel gennaio 1993 si dispone il ricovero d’urgenza presso l’ospedale del proprio paese per l’insorgenza di dolori addominali; in seguito al sospetto di un’appendicite acuta le viene praticata un’appendicectomia. La madre riferisce successivamente che a questo riguardo il medico ipotizza una diagnosi di linfoadenomegalia; tale ipotesi però, è solo raccontata dalla madre senza riscontri documentali in merito. La settimana seguente a tale episodio S. lamentando nuovamente malessere diffuso, meteorismo, dolori addominali e diarrea viene ricoverata ancora una volta nel vicino ospedale per una sospetta occlusione e sottoposta a clisma opaco con risoluzione del quadro. Nonostante tali esami, la bambina continua a presentare dolori addominali con frequenza di 2/3 episodi settimanali. La madre riferisce inoltre, che contemporaneamente la figlia inizia a soffrire di capogiri continui, a
lamentare uno stato di facile affaticabilità e a subire un progressivo rallentamento
dell’accrescimento.
Stando ancora al racconto della madre, in questo periodo si verificano, con frequenza
sempre maggiore, tumefazioni dolorose alle articolazioni delle mani, della caviglia e del ginocchio prima in concomitanza di piccoli traumi, successivamente senza che ve ne siano. In seguito a tali episodi S. viene più volte condotta al Pronto Soccorso dove le vengono applicati vari apparecchi gessati senza però alcun riscontro documentale. Nel maggio 1994 mentre la bambina gioca con un pallone si procura la lussazione dell’articolazione coxo-femorale destra; nei mesi successivi in assenza di episodi traumatici, la madre riferisce ai medici, senza produrre alcun referto a conferma, di numerose lussazioni riportate dalla bambina alla spalla sinistra. Nel luglio 1994 al risveglio, S. accusa un forte dolore al piede destro che appare tumefatto; una radiografia evidenzia una frattura di lieve entità, forse all’astragalo, in seguito alla quale si rende necessario l’uso di stampelle per la deambulazione. Nel dicembre 1994 la madre racconta di una tumefazione asintomatica bilaterale alle mani della durata di circa otto ore. Nel gennaio 1995 la vittima inizia a presentare una sintomatologia caratterizzata da intenso dolore addominale, vertigini, rilassamento muscolare e diminuzione del visus; dal momento che tale quadro patologico si ripete a distanza di circa un mese S. viene ricoverata in un ospedale del Centro Italia nel reparto di Neuropsichiatria Infantile. Gli esami ematologici, radiografici e sierologici effettuati risultano però negativi; l’esame
ecocuore dimostra un lieve shunt destro-sinistro emodinamicamente insignificante.
In occasione di tale ricovero i sanitari effettuano una biopsia digiunale compatibile
con malattia celiaca. La bambina viene dimessa da quest’ultimo ospedale con diagnosi di lipotimia e celiachia e le viene consigliato di recarsi al distretto di cardiologia di un ospedale del Nord Italia per ulteriori test che, effettuati a breve distanza di tempo, consentono di diagnosticare episodi sincopali di natura vasovagale.
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Nel luglio 1995 S. viene sottoposta presso l’Istituto di Gastroenterologia di un ospedale del Centro Italia ad una serie di controlli dall’esito negativo. Dopo pochi mesi per il persistere della sintomatologia, viene ricoverata presso il reparto di Patologia Speciale Medica di un Ospedale Senese dove vengono riscontrate: ipofunzione del ginocchio destro, ipotrofia muscolare diffusa, scoliosi del tratto dorsale inferiore, ipotonia generalizzata ma con riflessi osteo-tendinei presenti e vivaci.
In seguito a tale quadro patologico si effettuano ulteriori esami: una biopsia
cutanea compatibile con diagnosi di sindrome di Ehlers-Danlos, una capillaroscopia
che non sembra compatibile con collagenopatia, una consulenza genetica compatibile
con diagnosi di sindrome di Ehlers-Danlos di tipo IV ed una consulenza dermatologica; quest’ultima evidenzia lesioni riferibili a collagenopatia tipo Ehlers-Danlos. S. viene pertanto dimessa con diagnosi di morbo celiaco e sospetta collagenopatia da approfondire con consulenza pediatrica.
Vengono riferiti successivamente ricoveri a Padova e in Svizzera ma la madre non fornisce mai documentazione sanitaria. Nel novembre 1995 S. viene ricoverata nel reparto di Pediatria dell’Ospedale Senese per precisare la diagnosi di enteropatia e collagenopatia; da una consulenza psicologica emerge che la bambina ha avuto un’infanzia contraddistinta da lutti e da assenze continuate della madre dovute a malattia, in una famiglia con una struttura chiusa. Da quest’ultimo ospedale S. viene dimessa con diagnosi di celiachia e sindrome di Ehlers-Danlos da rivalutare.
Nel gennaio 1996 rientra nel reparto di Pediatria dell’ospedale del proprio paese per la definizione diagnostica; nel periodo intercorso, come consigliato, la bambina ricomincia a deambulare autonomamente. Tra Natale e Capodanno tornano a verificarsi episodi di dolore addominale e meteorismo per i quali viene condotta al Pronto Soccorso dell’ospedale del suo paese dove le viene applicato un sondino rettale e viene effettuata terapia antispastica non avvalorata da documentazione clinica. Nel reparto di Pediatria viene effettuata una nuova biopsia cutanea che esclude definitivamente la diagnosi di Ehlers-Danlos; in seguito a riscontri diagnostici negativi i sanitari decidono la reintegrazione di glutine nella dieta ma la madre non accetta. Dopo questo episodio la bambina non viene più sottoposta a visite pediatriche. Successivamente S. viene sottoposta a ricovero in un reparto di Reumatologia ma da questo momento in poi non sono più reperibili informazioni a riguardo. La madre di S. si dimostra molto attiva e collaborante in ospedale offrendo la disponibilità a partecipare personalmente alla somministrazione della terapia alla figlia. Socializza molto sia con il personale medico che paramedico e manifesta un comportamento seduttivo soprattutto nei confronti del medico curante, al quale non di rado fa piccoli regali. Si mostra sempre attenta e preoccupata per
la figlia ma non al punto di essere ossessiva. L’esame del background culturale non
evidenzia studi inerenti la medicina nonostante abbia buone conoscenze mediche relativamente alle patologie della figlia. Nei confronti della bambina sembra esplicare
un rapporto di dominio; la figlia infatti, dimostra di essere completamente succube
della madre fino ad arrivare a partecipare attivamente alle narrazioni delle malattie di cui ella è afflitta raccontate dalla madre stessa ai medici.
Il sospetto di trovarsi di fronte a comportamenti inquadrabili nella SMP è sorto
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nei sanitari del reparto di Pediatria dell’Ospedale Senese nel quale S. era stata ricoverata;
secondo i medici, infatti, la storia clinica riferita dalla madre non collima in alcun modo con la storia anamnestica e i dati di laboratorio. La madre della bambina quanto al comportamento può essere definita come “itinerante sanitaria” dal momento che la documentazione sanitaria evidenzia che la bambina ha subito in un arco di tempo relativamente breve almeno 12 ricoveri in vari reparti di ospedali italiani, dal reparto di Patologia Medica a quello di Pediatria, a quello di Reumatologia.
Il padre risulta essere presente durante i ricoveri della figlia; viene descritto come una persona curata, di bell’aspetto e sembra essere più giovane della moglie, fatto di cui quest’ultima è molto gelosa.
3. RIFLESSIONI SUL CASO
Il caso riportato, si può dire, non ha avuto una conclusione nel senso di un disvelamento
del comportamento munchausiano della madre nei confronti della piccola S. bensì ha fatto sorgere soltanto dei sospetti nei pediatri e nei colleghi sanitari con i quali questi ultimi si sono consultati, sospetti cui peraltro, non è conseguito effetto alcuno (segnalazione alle autorità competenti, avvio di indagini,..); la madre infatti, accortasi di un’attenzione particolare dei sanitari nei suoi confronti, da “itinerante sanitaria”, ha prontamente eliminato dai suoi indirizzi ospedalieri quello di Siena. Ma il caso ha lasciato un notevole sconcerto nel personale infermieristico che a vario titolo si è rapportato con la madre; alcuni di loro infatti, hanno manifestato sentimenti di delusione nei riguardi della madre di S. che sembrava molto “affettuosa” con la figlia, riconoscente con il personale infermieristico con cui addirittura aveva instaurato relazioni amichevoli durante il periodo di
degenza della figlia. Il sentimento di delusione unito alla rabbia di essere stati strumentalizzati da parte della madre è situazione conosciuta in letteratura, alcune ricerche americane hanno già ben evidenziato questo[23] .
La madre protagonista del caso riportato risulta avere tutte le caratteristiche individuate in letteratura e nell’osservazione di casi clinici di SMP, ovvero una donna collaborante con gli operatori sanitari, piacevole, premurosa e piena di attenzioni nei confronti del figlio, perennemente accanto al figlio nel corso della sua ospedalizzazione[24], grata nei confronti dei medici che curano il figlio, comportamento questo, che li spinge sempre ad approfondire le procedure sanitarie.
Quanto alla figura del padre, il caso evidenzia certamente differenti modalità comportamentali rispetto ai casi osservati in letteratura; generalmente infatti, le figure paterne nei casi di SMP sono quasi sempre assenti dalla vita familiare, deboli, negligenti, con ruoli del tutto passivi ed insignificanti[25], tale assenza va interpretata anche nel senso del mancato coinvolgimento da parte della moglie che così può agire in piena libertà sul figlio senza interferenza alcuna. In letteratura[26] si riscontrano pochissimi casi in cui è il padre a porre in essere comportamenti inquadrabili nella Sindrome di cui si parla;
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4. CONCLUSIONI
L’esame dei casi riportati in letteratura e di molte ricerche sull’argomento, evidenzia in riferimento al fenomeno di cui ci si sta occupando, due situazioni drammatiche: da una parte l’ignoranza sull’argomento proprio di quegli operatori sanitari che della SMP dovrebbero non solo conoscerne l’esistenza nosografica ma anche essere forniti di una adeguata preparazione tecnica sulle modalità attuative della sindrome medesima; dall’altra la difficoltà di diagnosticare la SMP dato che il quadro clinico con cui la malattia si presenta è estremamente vario in quanto varia e multiforme è la fantasia della madre che pone in essere la situazione munchausiana.
Ulteriore difficoltà è l’inquadramento in termini psichiatrici o meno del comportamento della madre dato che tale sindrome appartiene certamente al sapere clinico; a questo riguardo, va sottolineato come la maggior parte degli studiosi[27] ritiene che le madri protagoniste della SMP non presentino quadri patologici psichiatrici di notevole gravità quanto piuttosto sono riscontrabili Disturbi di personalità (Istrionico, Borderline, Paranoide).
La SMP ha inoltre, indubbie implicazioni di carattere psichiatrico-forense che richiedono un’attenta analisi caso per caso dentro il territorio della imputabilità nel senso anzitutto dell’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’autrice del reato, nonché dell’accertamento del grado di incapacità ai fini soprattutto, della scelta eventuale del tipo di trattamento cui sottoporre la stessa. In letteratura[28] ritroviamo la descrizione di casi in alcuni dei quali si è fatto ricorso per le madri a trattamenti psicoterapici che però hanno avuto scarso successo nel senso di una mancata ammissione delle proprie responsabilità, in altri a terapie di tipo familiare.
Sono questi, a nostro parere, i casi in cui i due saperi, appunto, quello medico e quello giuridico stridono fortemente nella ricerca di una ermeneutica capace di soddisfarli entrambi e a ben riflettere il rischio è sempre quello di far valere l’uno a discapito dell’altro o di invocarne uno ancorchè l’altro.
Ci chiediamo a questo punto se nella descrizione di tale sindrome possiamo
definire i ruoli dell’autore e della vittima in maniera marcata o se, invece, ci troviamo
di fronte ad una sindrome con più vittime, ove l’autore è esso stesso doppiamente
vittima da un lato perché comunque il suo comportamento si declina in
circuiti diversi da quelli che naturalmente dovrebbero appartenere alla relazione
madre/figlio - qui svolta in termini distruttivi - e dall’altro perché comunque il
comportamento munchausiano integra ed invoca il rigore della norma penale. Tali
problematiche suggeriscono una via da perseguire e cioè lavorare per sorreggere i
bisogni formativi di quei soggetti che per loro stesso mestiere sono i possibili referenti
di quell’ “help” inespresso o non saputo cogliere della madre affetta da tale
sindrome. E’ dunque sul terreno della solitudine della madre affetta dalla SMP che
bisogna agire attrezzando i possibili referenti dell’ “help” a capire i segnali della
patologia in atto anche perché il grande alleato della madre munchausiana è il
medico o l’agente sanitario distratto o peggio ancora ignorante del fenomeno e che
con la sua inconsapevole collaborazione partecipa alla realizzazione del dramma
che la SMP pone in essere.
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[23] Vedasi in proposito la ricerca condotta da Blix S. e Brack G. su 20 infermieri pediatrici di un ospedale di Indianapolis, venuti in contatto con casi di Sindrome di Munchausen per Procura, allo scopo di verificare la reazione degli stessi di fronte alla scoperta del caso in Blix S, Brack G, The effects of a suspected case of Munchausen’s Syndrome by Proxy on a Pediatrics nursing staff, General Hospital Psichiatry, 10, 1988.
[24] In alcuni casi osservati da lui osservati, Meadow descrive l’atteggiamento della madre verso il figlio “limpet-like”, ovvero come l’atteggiamento dell’ostrica che protegge la propria perla, in Meadow S.R., Munchausen sindrome by proxy, cit., 1982.
[25] Meadow SR. Suffocation, recurrent apnea and sudden infant death, The Journal of Pediatrics, 3, 1990; Franzini L, Grossberg JM. Comportamenti bizzarri, cit.1996.
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[27] Bools CN, Neale B.A., Meadow S.R., Munchausen syndrome by proxy: a study of individual psycopathology, Child Abuse and Neglect, 69, 1993.
[28]Waller DA, Livingston R, Alexander R. e Meadow S.R., Bools C.N., in Merzagora Betsos I., Demoni del focolare, cit., 2003.