Succede, molto raramente ma succede, che una madre possa uccidere il suo bambino, il fatto esce in cronaca e scatena una psicosi collettiva. Colpire un essere innocente e indifeso è già di per sé inaccettabile per la nostra civiltà, che poi a compiere il gesto sia la stessa madre, colei che per definizione dovrebbe invece prendersene cura, risulta anche totalmente incomprensibile. Per capire, allora, e soprattutto per allontanare il timore che a un omicidio così efferato possa di punto in bianco risolversi qualsiasi mamma, si ricorre immediatamente alla patologia psichiatrica. Medici, avvocati e giornalisti cominciano a scavare nella vita dell’omicida per scoprire il seme della follia, tutti convinti che una grave malattia mentale sia contemporaneamente causa, movente e attenuante di un simile gesto. Il binomio violenza/psicosi appare confortante per la coscienza del cittadino “normale” ma può rappresentare, per l’assassino un facile ricorso alla non punibilità, e per il malato un ingiusto pregiudizio di colpevolezza. La professoressa Isabella Merzagora Betsos, direttore della Scuola di Specializzazione di Criminologia Clinica, ci aiuterà in questa intervista a capire quale sia il limite che separa il raptus di follia dalla volontà di uccidere, e quale sia il legame tra normalità e consapevolezza delle proprie azioni.
La violenza, comunque venga agita, all’interno del nucleo familiare è qualcosa che trasgredisce profondamente non solo i diritti umani e il codice penale ma anche la fiducia nei primissimi rapporti affettivi che ciascuno di noi instaura. Ecco allora che il giudizio popolare vuole riconoscere in questi atti la mano della follia, è davvero così?
Dipende da caso a caso: spesso, ma non sempre, certi comportamenti nascono e si alimentano in un clima “ammalato” da condizioni socio-economiche disagiate, dipendenza da alcol o droga, rapporti conflittuali. Non siamo di fronte ad una patologia psichiatrica ma è l’ambiente familiare e le sue dinamiche interne che sono patologici, in queste condizioni possono trovare spazio abusi, maltrattamenti, violenze psichiche e fisiche fino all’omicidio. In taluni casi, invece, una grave forma di depressione è all’origine di un gesto fatale, è ciò che si verifica quando uno dei genitori è talmente disperato da vedere come unica via di uscita la morte. Nella sua mente malata non vede futuro nemmeno per i suoi figli (o fratelli, moglie, parenti, conviventi) tanto da ucciderli, per sottrarli al mondo e ad un destino infelice, prima di suicidarsi. In termini criminologici questi atti sono definiti “omicidio pietatis causa” o “suicidio allargato”, psicologicamente sono dettati da eccesso di amore e protezione verso i propri cari.
Quindi il collegamento tra follia e violenza non è affatto scontato. Eppure, quando una madre causa la morte del proprio bambino, il ricorso alla perizia psichiatrica è quasi immediato.
Aggressività, violenza, odio fanno parte dell’animo umano, sono pulsioni che l’uomo ha imparato a contenere grazie alla progressiva civilizzazione della società in cui vive, ma non sono certo indice di malattia. Ciò che fa la differenza è il clima culturale in cui avviene il fatto: oggi in Occidente il figlicidio è guardato con raccapriccio e sconcerto, in altre epoche e in altre culture veniva e viene ancora percepito con minor gravità.In linea generale, potremmo affermare che il neonaticidio viene commesso indifferentemente da madri sane o affette da disturbo mentale, e la storia di questi crimini lo conferma. Scopo della perizia medica è chiarire se il soggetto fosse capace di intendere o volere al momento in cui ha commesso il fatto e in relazione al fatto stesso, ovvero se si rendeva conto di ciò che stava facendo. La presenza di una malattia mentale, anche grave, ma adeguatamente trattata, non implica la non coscienza e responsabilità delle proprie azioni; viceversa una psicosi trascurata e vissuta in condizioni di degrado può fare sì che il paziente compia atti violenti, contro se stesso oppure contro altri.
D’accordo, è chiaro quanto siano importanti l’ambiente familiare e il contesto sociale nel contenere sia la follia sia l’aggressività, ma Lei parla anche di madri “sane”. Quando non vi sono disturbi evidenti, come può una madre uccidere il proprio figlio?
Intanto ci terrei a fare una premessa sull’istinto materno, che tanti danno per innato e presente in ogni donna. Gli esseri umani non sono animali: non hanno istinti ma sentimenti e raziocinio, chi commette un assassinio, infatti, non uccide per la propria sopravvivenza o per quella della sua specie. L’uomo agisce in base a ciò che ha imparato perché gli è stato insegnato, le sue azioni sono culturalmente determinate, quindi ci si può aspettare che vi sia un sentimento materno, più o meno marcato a seconda dei soggetti, ma niente di più.Per quanto riguarda l’infanticidio in assenza di storia psichiatrica esso può rientrare in una di queste tre diverse dinamiche tipicamente femminili: Medea, Munchausen per procura e negazione della gravidanza. Da ultimo bisogna anche ricordare che, quando si tratta di disturbi psicologici o sofferenze nei rapporti interpersonali, la famiglia è sempre l’ultima a sapere e spesso rifiuta anche di riconoscere e affrontare questi disagi per non mettersi in discussione. Questo concetto sarà più chiaro dalla descrizione delle sindromi citate.
Partiamo con la storia di Medea che fa parte dei miti della letteratura greca antica, non è troppo lontana da noi?
Il tema è antichissimo, risale probabilmente al VI° secolo a.C. e se conoscono tante versioni, leggermente diverse tra loro, riportate da numerosi autori, quello che è interessante è però notare quanto sia ancora attuale. Medea sopprime i propri figli per vendicarsi del coniuge, per farlo soffrire; l’odio verso il partner viene quindi indirizzato verso il figlio, che rappresenta concretamente il frutto dell’unione e anche un antagonista meno temibile del partner stesso.Medea è un archetipo di donna in conflitto con il marito, i motivi di tale conflitto possono essere i più svariati: gelosia, invidia, orgoglio ferito, l’essere trascurata, ma l’esito è sempre la trasformazione dell’amore verso il coniuge in odio. Dopo questo viraggio dei sentimenti, il figlio diventa strumento per creare sofferenza o attirare attenzione da parte di colui che è il vero oggetto dell’ostilità materna. A parziale conferma, questi atti vengono spesso commessi subito dopo un evento scatenante, magari l’ennesima lite con il coniuge.
La sindrome di Munchausen per procura, invece, appare in tempi decisamente più recenti…
Sì, potremmo dire che è la versione moderna del figlicidio, resa possibile dalla grande disponibilità di strumenti diagnostici e terapeutici; un paradosso perché proprio quei presidi nati per garantire la salute finiscono per trasformarsi in armi nocive o mortali. Andiamo con ordine: l’espressione “sindrome di Munchausen” compare per la prima volta nel 1951 per descrivere quelle persone che si rivolgono insistentemente e inutilmente a medici e ospedali, riferendo continui quanto inesistenti disturbi, fino a riportare conseguenze dannose dai ripetuti accertamenti o, addirittura, dai molteplici interventi chirurgici. Alla triste applicazione ai bambini si giunge circa 20 anni dopo con la definizione di Meadow (1977) della “sindrome di Munchausen per procura”: situazione in cui i genitori, o inventando sintomi e segni che i propri figli non hanno, o procurando loro sintomi e disturbi (per esempio somministrando sostanze dannose), li espongono ad una serie di accertamenti, esami, interventi che finiscono per danneggiarli o addirittura ucciderli. Tipicamente la vittima è un bambino piccolo e il responsabile è la madre, cioè la persona a cui sono affidate le cure del bambino e che, per questo, si trova nella posizione migliore per simularne la malattia. Si ritiene che la motivazione di tale comportamento sia il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato.Questo fenomeno è sempre più diffuso o, probabilmente, più osservato da quando lo si è riconosciuto come eccesso d’amore che cade nella perversione. Contrariamente a quanto si penserebbe, infatti, queste madri sono sollecite, premurose, costantemente presenti e molto attente nel prendersi cura della salute dei figli. Agli occhi di tutti hanno un comportamento esemplare, inoltre sono amichevoli, cordiali, collaboranti e riconoscenti con il personale di assistenza, tutti atteggiamenti che, uniti ad ansia e insistenza, incoraggiano i medici ad approfondire gli accertamenti e distolgono anche solo il sospetto che si possa trattare di madri che, invece, maltrattano subdolamente i figli.
La negazione della gravidanza: anche qui, nonostante non manchino fatti di cronaca in proposito, appare alla maggioranza di noi quanto meno assurdo che si riesca a nascondere una gravidanza.
Certo perché i sintomi di una gravidanza sono ben evidenti, anche per chi non abbia mai avuto figli, ma alla luce di certi avvenimenti si deve riconoscere che non è sempre così. Mi spiego: analogamente al noto fenomeno della gravidanza isterica (pseudociesi), in cui un desiderio psichico condiziona il corpo tanto da indurre la manifestazioni tipiche della gravidanza, esiste anche il fenomeno opposto, ossia la negazione psicologica della gravidanza. La necessità di negare può essere così intensa da influenzare le manifestazioni biologiche, per cui molti dei sintomi possono essere assenti; in aggiunta la donna ricorre alla razionalizzazione, quale meccanismo di difesa, per spiegare in altro modo i sintomi fisici che invece avverte. La scoperta della gravidanza può avvenire accidentalmente, per esempio dopo una radiografia disposta perché la paziente lamenta dolori di schiena, oppure la negazione può coprire tutto il periodo della gestazione fino al parto. In quest’ultimo caso il parto non di rado avviene in una toilette, poiché la madre viene colta improvvisamente da inspiegabili dolori addominali, ed è caratterizzato da un periodo espulsivo molto rapido. Modalità così poco ortodosse unite al fatto che la nascita è un evento inatteso, possono far capire come la madre venga travolta da uno sconcerto emotivo che le impedisce di prestare le dovute cure al neonato, fino a causarne la morte.
A conclusione e per rassicurare ogni mamma, vale la pena ricordare che le situazioni particolari qui descritte sono estremamente rare, vero professoressa?
Innanzi tutto sono rarissimi gli omicidi delle donne: le statistiche mostrano chiaramente che gli assassini sono quasi sempre giovani uomini, mi pare doveroso sottolinearlo per correttezza e completezza dell’informazione. La casistica femminile riguarda, nella maggior parte dei casi, il figlicidio, tuttavia i profili descritti sono solo alcuni di quelli possibili. Diciamo che nel contesto di questa intervista si sono approfonditi i casi più “spinosi”, quelli che sono più difficili da prevedere, scoprire e comprendere. Nulla toglie, però, che situazioni di disagio familiare, o della figura materna, si risolvano con il passare del tempo, con la richiesta di aiuto medico o, comunque, persistano senza mai degenerare nel delitto. In parole molto semplici ciascuno di noi ha le sue stranezze e i suoi problemi, senza per questo essere un omicida potenziale.
Elisa Lucchesini
Fonti “Madri che uccidono” professoressa Isabella Merzagora Betsos VII Congresso Nazionale SOPSI (Roma febbraio 2002)