giovedì 14 settembre 2006

Sindrome di Stoccolma

La sindrome di Stoccolma è una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro può manifestare sentimenti positivi nei confronti del suo sequestratore, arrivando ad instaurare con lui anche un forte legame affettivo, in alcuni casi fino all'innamoramento.
Prende il nome dalla capitale svedese, città in cui nel 1973, a seguito di una rapina in banca, i dipendenti presi in ostaggio richiesero la clemenza alle autorità per i loro sequestratori.
La sindrome di Stoccolma è talvolta citata in riferimento ad altre situazioni simili, quali le violenze sulle donne e gli abusi sui minori.
Origini del nome
La sindrome deve il suo nome alla rapina della "Kreditbanken" di Stoccolma nel 1973, in cui alcuni dipendenti della banca furono tenuti in ostaggio dai rapinatori per sei giorni. Le vittime provarono una forma di attaccamento emotivo ai loro sequestratori fino a giungere al punto di prendere le loro difese in seguito alla liberazione. Il termine fu coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, il quale aiutò la polizia durante la rapina. Fu usato per la prima volta durante una trasmissione televisiva.
Casi celebri
Patty Hearst aiutò il SLA durante una rapina in banca due mesi dopo il proprio rapimento
La ricca ereditiera Patty Hearst, dopo essere stata rapita dal Symbionese Liberation Army nel febbraio del 1974, prese parte ad una rapina in banca insieme a due dei suoi rapitori due mesi dopo. Fu arrestata nel settembre del 1975 ma la sua difesa non riuscì a far valere la tesi della mancanza di colpevolezza a causa della manifestazione della sindrome di Stoccolma
Elizabeth Smart fu rapita e stuprata da un uomo affetto da malattie mentali che la considerava sua moglie: tra il 2002 ed il 2003 la Smart trascorse diversi mesi insieme al suo aguzzino senza alcuna costrizione fisica.
Casi dubbi
Natascha Kampusch ha vissuto segregata col suo rapitore (Wolfgang Priklopil) dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si prendono cura di lei ha testimoniato dicendo che non si sentiva privata di niente e che è dispiaciuta della morte del suo rapitore (che si è suicidato dopo che era scappata). La ragazza, però, intervistata dalla televisione austriaca il 6 settembre 2006, ha smentito le voci sulla sua presunta "sindrome di Stoccolma", aggiungendo di non aver mai rinunciato alla fuga. Ha solo manifestato pietà per il rapitore suicida e per la sua famiglia. In seguito a questa intervista, che ha fatto il giro del mondo, il filosofo e psicoanalista italiano Umberto Galimberti, in un articolo apparso sulla prima pagina de La Repubblica del giorno dopo ("Una vita sospesa"), ha escluso che quello della ragazza austriaca sia un caso di "sindrome di Stoccolma".
Incidenza
Dalla banca dati dell'FBI americana risulta che il 92% degli ostaggi non ha mai mostrato sintomi della sindrome di Stoccolma [1].
Riferimenti nella cultura popolare
Film e televisione
Nelle tre serie di Law and Order
Buffalo '66
Matlock: The Kidnapping
Quel pomeriggio di un giorno da cani
Agente 007 - Il mondo non basta; James Bond (Pierce Brosnan) smaschera la bella Elektra King (Sophie Marceau) accusandola di essersi alleata con il "cattivo" di turno, Renard, che la aveva sequestrata tempo prima, avendo acquisito proprio la sindrome di Stoccolma.
Guerrilla: The Taking of Patty Hearst
Six Feet Under, episodio 44 (That's My Dog).
In Die Hard, un medico in una trasmissione televisiva descrive un fenomeno identico chiamato "sindrome di Helsinki".
In Viaggio senza ritorno del 1997 una coppia interpretata da Kevin Pollak e Kim Dickens è presa in ostaggio da Vincent Gallo e Kiefer Sutherland; l'uomo simpatizza con i propri rapitori.
Azione mutante, film di Alex de la Iglesia prodotto da Pedro Almodovar. La sposa rapita Patricia Orujo si innamora del capo dei rapitori, Ramon Yarritu, il quale riconosce la sindrome di Stoccolma.
Nell'episodio 14 della terza serie di Nip/Tuck dal titolo Cherry Peck.
In Il portiere di notte, celebre film di Liliana Cavani, la protagonista instaura un rapporto ossessivo e indissolubile con l'uomo che la teneva prigioniera nel campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale.
Musica
Un gruppo rock di Toronto si chiama Stockholm Syndrome
Il gruppo musicale Muse ha composto una canzone intitolata Stockholm Syndrome, inserita nell'album Absolution del 2003
La cantante americana Dory Previn, lei stessa vittima di abusi da bambina, ha scritto una canzone intitolata With My Daddy in the Attic che affronta la sindrome di Stoccolma.
I Yo La Tengo hanno una canzone intitolata Stockholm Syndrome nell'album I Can Hear The Heart Beating As One.
I blink-182 hanno una canzone dal titolo Stockholm Syndrome nel loro album blink-182.
La band punk rock svedese Backyard Babies ha realizzato un album dal titolo Stockholm Syndrome.




















AIPG
ASSOCIAZIONE ITALIANA di PSICOLOGIA GIURIDICA
3° CORSO DI FORMAZIONE in
PSICOLOGIA GIURIDICA, PSICOPATOLOGIA E PSICODIAGNOSTICA
FORENSE
Teoria e Tecnica della Perizia e della Consulenza Tecnica
Anno 2003
LA “SINDROME DI STOCCOLMA”
Dott.ssa Cinzia Foglia
-Psicologa-

INDICE
Introduzione………………………………………………………………….. .4
Cos’è la “Sindrome di Stoccolma”?……………………………………….… 5
Come si spiega?………………………………………………………………..7
Perché non in tutti si manifesta?………………………………………….. 9
Implicazioni…………………………………………………………………..10
Conclusioni…………………………………………………………………...12
Bibliografia
“Pensavo che se fossi riuscita a stabilire
un rapporto con lui, avrei potuto convincerlo
a rinunciare a tutto, e se si fosse liberato
dell’angoscia che si teneva dentro,
forse avrebbe avuto un ripensamento […]
Se piaci a qualcuno, non ti ucciderà.”
Kristin Ehnmark, ostaggio della Sveriges
Kreditbank di Stoccolma, in una testimonianza
alla polizia.

“La colpa è degli ostaggi.
Facevano tutto quello che dicevo.
Se si fossero ribellati, forse non sarei qui.
Perché nessuno di loro mi è saltato addosso?
Hanno fatto in modo che uccidere fosse difficile.
Ci hanno fatto vivere insieme giorno dopo giorno,
come capre, in quella sporcizia.
L’unica cosa da fare era conoscersi.”
Jan Erik Olsson, sequestratore della Sveriges Kreditbank
di Stoccolma, in un’intervista dalla prigione.

INTRODUZIONE
Se da un punto di vista giuridico il rapporto fra vittima e persecutore risulta
chiaro (persecutore è colui che infligge la sofferenza ad una vittima che la
subisce), da un punto di vista psicologico è molto più complesso: l’interazione
vittima-persecutore è, infatti, in questo ultimo caso vista in relazione
all’interazione fra i due e non solo vedendo il ruolo dell’uno in funzione di quello
dell’altro.
Fra due persone che entrano in relazione, qualunque ne sia il tipo, si stabilisce
una comunicazione, un legame contenente rapporti affettivi, seppur di varia
natura.
Ovviamente, in questa situazione giocano un ruolo importante varie
componenti, quali: la personalità1 della vittima e del persecutore, i loro
comportamenti, le circostanze, il contesto situazionale, che caratterizzano l’evento
e la dinamica di esso (soprattutto la sua intensità, la sua gravità e la sua durata).
Soltanto partendo da queste premesse è forse possibile tentare una spiegazione
di un fenomeno strano ed al tempo stesso affascinante, che peraltro presenta
importanti implicazioni preventive, repressive e processuali, quale la “Sindrome
di Stoccolma”.
1 Per personalità si intende la struttura psichica del soggetto nella sua globalità: fattori cognitivi, ma anche
e soprattutto aspetti emotivi, affettivi, meccanismi di difesa, rapporto con la realtà e integrità dell’Io.
COS’E’ LA “SINDROME DI STOCCOLMA”?
La Sindrome di Stoccolma promuove inverosimili rapporti affettivi tra le
vittime di sequestro di persona2 ed i loro rapitori; sembra essere una risposta
emotiva automatica, spesso inconscia, al trauma del diventare ostaggio e
coinvolge sia i sequestrati che i sequestratori. Infatti consiste, generalmente, di tre
fasi: sentimenti positivi degli ostaggi verso i loro sequestratori, sentimenti
negativi degli ostaggi contro la polizia o altre autorità governative, e reciprocità di
sentimenti positivi da parte dei sequestratori.
Il termine “Sindrome di Stoccolma” è stato utilizzato per la prima volta da
Conrad Hassel, agente speciale dell’FBI, in seguito ad un famoso episodio
accaduto in Svezia tra il 25 ed il 28 agosto del 1973: due rapinatori tennero in
ostaggio per 131 ore quattro impiegati (tre donne ed un uomo) nella “camera di
sicurezza” della Sveriges Kreditbank di Stoccolma. Nonostante la loro vita fosse
continuamente messa in pericolo, durante il periodo di prigionia, che fu seguito
con particolare attenzione dai mezzi di comunicazione, risultò che le vittime
temevano più la polizia di quanto non temessero i rapitori, che una delle vittime
sviluppò un forte legame sentimentale con uno dei rapitori (che durò anche dopo
l’episodio) e che, dopo il rilascio, venne chiesta dai sequestrati la clemenza per i
sequestratori e durante il processo alcuni degli ostaggi testimoniarono in loro
favore.
Situazioni affettive simili a quelle descritte nel “caso originario” hanno trovato
riscontro in numerosi altri episodi di rapimento, suscitando il medesimo clamore.
Questa Sindrome può interessare ostaggi e rapitori di ogni età, di ambo i sessi,
di ogni nazionalità e senza distinzione di “background” socio-culturale.
Alcuni fattori ne faciliterebbero l’insorgere: la durata e l’intensità
dell’esperienza, la dipendenza dell’ostaggio dal delinquente per la sua
sopravvivenza e la distanza psicologica dell’ostaggio dalle autorità.
2 Il sequestro può essere per fini politici, terroristici, a scopo di estorsione, per rapina…
Sembrerebbe che i legami positivi tra rapitore e rapito non si formino subito,
ma si rivelino già abbastanza solidi entro il terzo giorno di prigionia. Questo
potrebbe essere giustificato dal fatto che nei primi momenti dopo il sequestro il
rapito sperimenti un totale stato di confusione, riscontrabile anche in alcune
risposte tipiche al trauma: diniego, illusione di ottenere la liberazione, attività
frenetica ed esame di coscienza.
Una volta superato il trauma iniziale, la vittima torna consapevole della
situazione che sta vivendo e deve trovare un modo per sopportarla; tutto ciò,
unitamente all’aumentare del tempo trascorso insieme tra vittima e rapitore ed
all’isolamento dal resto del mondo, agevola l’alleanza col sequestratore.
La mancanza di forti esperienze negative, quali percosse, violenza carnale o
abuso fisico, facilita la genesi della sindrome; abusi meno intensi, deprivazioni ed
umiliazioni tendono, invece, ad essere razionalizzati e le vittime si convincono
che la dimostrazione di forza del sequestratore sia necessaria per controllare la
situazione o giustificata da un loro comportamento scorretto.
Spesso il legame fra sequestratore e rapito comincia sulla base di un comune
risentimento nei confronti della polizia, che il più delle volte è percepita
dall’ostaggio come minacciosa: l’insistenza per la resa del criminale e
l’eventualità di un’incursione pongono la vittima in un
continuo stato d’ansia e di paura per la propria incolumità. Inoltre, le forze
dell’ordine vengono considerate meno potenti del delinquente stesso, perché
hanno fallito il loro ruolo protettivo e di garanti dell’ordine pubblico dal momento
che il sequestro è avvenuto.
Una volta sviluppatasi non si conosce ancora con precisione la possibile durata
di questa Sindrome, ma pare possa sussistere anche per parecchi anni.
E’ comunque opportuno sottolineare che anche in chi ha sviluppato la
Sindrome di Stoccolma si sono riscontrati a distanza di tempo: disturbi del sonno,
incubi, fobie, trasalimenti improvvisi, flashback e depressione.
COME SI SPIEGA?
Varie sono state le spiegazioni date a questo fenomeno.
Alcuni autori ritengono che questo legame derivi dallo stato di dipendenza
concreta che si sviluppa fra il rapito ed i suoi rapitori; questi ultimi controllano
cibo, aria, acqua e sopravvivenza, elementi essenziali, rinforzi che, da un punto di
vista comportamentale, quando vengono concessi, giustificherebbero la
gratitudine e la riconoscenza che gli ostaggi manifestano nei confronti dei loro
carcerieri.
Altri autori, la maggioranza a dire il vero, affronta invece il fenomeno da un
punto di vista più tipicamente psicoanalitico; in generale, si potrebbe affermare
che l’Io nel tentativo di trovare un equilibrio fra le richieste istintive dell’Es ed
una realtà angosciosa, non può far altro che mettere in atto meccanismi difensivi.
I due meccanismi di difesa ai quali viene più spesso fatto riferimento sono la
regressione e l’identificazione con l’aggressore.
Per quanto riguarda la regressione, la priorità della conservazione mette in atto
funzioni istintive, di carattere infantile, così il sentimento reattivo della vittima si
concretizza in un atteggiamento teso a provocare protezione e cura; l’ostaggio è
simile al neonato: deve piangere affinché gli venga dato da mangiare, non può
parlare, è costretto all’immobilità, è in uno stato di totale dipendenza da un adulto
onnipotente ed ha paura di un mondo esterno vissuto come minaccioso.
L’identificazione con l’aggressore, invece, fa si che il dato di realtà relativo alla
natura ostile del persecutore venga distorto; la paradossale condivisione del punto
di vista del persecutore permette al soggetto di superare il conflitto psichico dato
da un lato dalla dipendenza da un aggressore minaccioso e dall’altro
dall’impossibilità di “liberarsene” o sfuggirgli proprio perché subordinato a lui,
col vantaggio secondario del ritenere giustificate, e quindi meno intollerabili, le
angherie che da lui provengono.
L’autore del sequestro, a sua volta, “subisce” un’identificazione inversa.
Quanto più un ostaggio riesce a farsi riconoscere nella sua identità, tanto più
diventa difficile per il sequestratore fargli del male. E’ infatti provato che la
maggior parte delle persone non riesce a fare del male ad altri individui, a meno
che la vittima non resti anonima. Inoltre, pare che i sequestratori provino un certo
affetto nei confronti dei rapiti anche come segno di gratitudine per la
collaborazione ricevuta, forse mossi da un desiderio inconscio di essere amati e
rispettati.
PERCHE’ NON IN TUTTI SI MANIFESTA?
Tuttavia la Sindrome di Stoccolma non si sviluppa necessariamente sempre,
non è conseguenza inevitabile delle situazioni di cattività. Vi sono casi di alcuni
ostaggi che, non solo hanno evitato ogni subordinazione ai carcerieri, ma che, col
proprio atteggiamento, ne hanno anche incrinato l’intransigenza. E’ altresì vero
che questi esempi sono molto meno frequenti rispetto a quelli che riportano lo
sviluppo della Sindrome di Stoccolma.
Non essendoci prova di una correlazione diretta tra intensità o natura del
trauma e reazione psicologica, è probabilmente da ricercare nei fattori
personologici e caratteriali soggettivi il motivo della messa in atto di alcuni
meccanismi difensivi e di adattamento piuttosto che altri.
I rari casi di rapiti che non hanno manifestato la Sindrome di Stoccolma,
vengono descritti come soggetti con una forte personalità e con radicate
convinzioni morali, che sono riusciti a mantenere la propria identità ed un
rapporto affettivo e di fiducia con la realtà esterna e che grazie a ciò siano stati in
grado di attivare un comportamento teso all’adattamento costruttivo, che li ha
condotti all’accettazione della situazione senza subirla totalmente.
Lo sviluppo della Sindrome di Stoccolma è meno probabile anche nei casi in
cui un individuo, magari per il lavoro che fa, può attendersi un atto del genere;
infatti, pare che la rapidità e l’inaspettatezza dell’evento giochino un ruolo
fondamentale nella creazione di quella situazione di emergenza psichica che
favorisce la dinamica di annullamento che può indurre la Sindrome.
Comunque sia, è necessario ricordare che situazioni di questo tipo, estreme ed
altamente stressanti, possono lasciare tracce indelebili, che si rivelano a distanza
di tempo, pur in persone che al momento hanno reagito in maniera valida.
IMPLICAZIONI
Si è accennato nell’introduzione che questa Sindrome può avere implicazioni a
livello preventivo, repressivo e processuale. Alla luce di quanto esposto fin ora,
questi concetti possono essere meglio esplicati e probabilmente più comprensibili.
La Sindrome di Stoccolma aumenta le possibilità di sopravvivenza della
vittima; elaborare specifiche misure preventive che le vittime potenziali
potrebbero adottare, informandole anche della natura e del grado di rischio
associato a determinate reazioni e risposte in situazioni di contatto diretto ed
immediato col vittimizzatore, potrebbe quindi rivelarsi di grande utilità.
Partendo dallo stesso presupposto, ossia che lo sviluppo della Sindrome di
Stoccolma vada a tutto vantaggio dell’ostaggio, favorirne lo sviluppo è divenuto,
almeno in America, una delle varie procedure adottate dalla polizia per garantire
una risoluzione positiva dei sequestri. I negoziatori cercano in ogni modo di
creare legami emotivi positivi tra l’ostaggio e il rapitore, ad esempio chiedendo al
sequestratore di permettere all’ostaggio di parlare al telefono, facendone
controllare la salute, oppure discutendo col rapitore delle responsabilità familiari
degli ostaggi stessi; è insomma promossa qualunque azione tesa a sottolineare le
qualità umane degli ostaggi.
Sebbene le forze di polizia più attente incoraggino questo tipo di situazione,
spesso la Sindrome di Stoccolma ostacola il lavoro della polizia; in nome della
stima e della simpatia per i sequestratori (anche perché magari ha discusso con
essi della loro causa e dei motivi della loro sofferenza), l’ostaggio potrebbe non
seguire gli ordini della polizia durante un assalto, potrebbe avvertire i rapitori per
impedire che vengano uccisi o catturati e persino nascondere informazioni durante
i contatti con i negoziatori. La polizia e le autorità non possono e non devono
quindi fidarsi dell’ostaggio, che non deve essere informato segretamente dei piani
di liberazione. Inoltre, le sue informazioni sulle condizioni e sulla situazione
esistente nel luogo di segregazione spesso non sono affatto attendibili.
Nel caso originario, gli ostaggi, pur avendo avuto la possibilità in qualche
occasione di scappare, non ne hanno approfittato; il rifiuto di fuggire portò gravi
conseguenze anche e soprattutto durante il processo, perché i giurati non
riuscirono assolutamente a comprendere le motivazioni di quel gesto.
Purtroppo accade di frequente che le vittime non collaborino con la polizia e
continuino a proteggere i criminali anche finito l’assedio; alcune vittime hanno
preso ferie per assistere al processo, altre hanno aperto una sottoscrizione per la
difesa dei loro sequestratori, altre ancora hanno rifiutato di farsi intervistare dai
funzionari di polizia che avevano in custodia i rapitori.
In questi casi gli ex ostaggi non sono di alcuna utilità, sia al momento della
risoluzione della crisi, sia durante il successivo procedimento penale, dove
possono perfino rivelarsi testimoni avversi all’accusa.
Secondo lo psicologo Chris Hatcher è comune che i rapiti una volta tornati in
libertà preferiscano “lasciare a Dio o ad altri il compito della punizione…” e che
sarebbero riluttanti a farsi avanti con delle accuse perché il procedimento penale li
costringerebbe a rivivere quell’esperienza.
Nonostante tutto, la Sindrome di Stoccolma è agevolata, perché un ostaggio
ostile e inaffidabile o un testimone non collaborante, sono comunque un ostaggio
ed un testimone vivi.
CONCLUSIONE
In conclusione mi sembra interessante riportare uno studio del Dipartimento di
Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Università di Padova. Lo scopo di
questa ricerca, oltre alla valutazione della frequenza di disturbo post-traumatico
da stress (DPTS) e depressione maggiore (DM) in un campione di 24 soggetti
vittime di sequestro di persona in Sardegna, era la valutazione dello sviluppo della
Sindrome di Stoccolma (definita come lo sviluppo di un legame positivo con uno
o più sequestratori) durante la loro prigionia.
Dai risultati si evince che la Sindrome di Stoccolma è presente in circa il 50%
dei soggetti e non è significativamente associata al DPTS o alla DM. E’
comunque importante sottolineare che il DPTS risulti significativamente associato
ad un maggior numero di esperienze di violenza fisica, mentre la Sindrome di
Stoccolma sia maggiormente legata ad altri aspetti dell’esperienza traumatica.
BIBLIOGRAFIA
Favaro A., Degortes D., Colombo G., Santonastaso P. Disturbo post-traumatico da stress
nelle vittime di sequestro di persona in Sardegna. Dipartimento di Scienze Neurologiche e
Psichiatriche, Università di Padova.
Ferracuti F. (a cura di) Trattato di Criminologia, Medicina Criminologia e Psichiatria
Forense; Vol. 9: Forme di organizzazioni criminali e terrorismo. Giuffrè, Milano, 1988.
Franzini L. R., Grossberg J. M. Comportamenti bizzarri. Astrolabio, Roma, 1996.
Freud A. L’Io e i meccanismi di difesa. Martinelli, Firenze, 1967.
Giusti G. (diretto da) Trattato di Medicina Legale e Scienze Affini; Vol. 4, Parte 10:
Psicopatologia forense e criminologia. CEDAM, Padova, 1999.
Gulotta G. (con la collaborazione di M. Vagaggini) La vittima. Giuffrè, Milano, 1976.
Gulotta G., Vagaggini M. Dalla parte della vittima. Giuffrè, Milano, 1980.
Lalli N. Manuale di Psichiatria e Psicoterapia. Liguori, Napoli, 1999.




FUNZIONI DELL'ISTINTO DI CONSERVAZIONE DELLA VITTIMA DEL TERRORE
Contributo1 al convegno "dalla parte della vittima" tenutosi a Milano, marzo 1978, realizzato dal Gruppo di Psicologia Giuridica (G.P.G.) della Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Milano.
Lothar Knaak, Ascona
Esperienze
La mia esperienza personale quale vittima del terrore l'ho vissuta più di trent'anni fa, Quest'oggi sono stupito del comportamento inconscio, ma conseguente della «mia persona» durante i mesi ed anni critici della seconda guerra mondiale.
Mi sono salvato fuggendo da un Lager tipico per gli stati in guerra, e per mezzo di quest'atto d'autoliberazione ho potuto accettare il regime dei campi di profughi d'un paese non coinvolto nella guerra, con buon umore ed apprezzando il vantaggio d'un ambiente protettivo.
Ritengo quindi di parlare con cognizione di causa, trattando dell'istinto di conservazione tipico della vittima del terrore.
Parlavo tempo fa con un zoologo, il quale è stato aggredito in Kenia da un leone e ferito seriamente da una zampata e da un morso. Sulla scorta di questa sua esperienza egli affermava che le prede della belva non avvertono il dolore a causa della paralisi provocata dallo spavento.
E ciò è congruente con l'esperienza umana, riportandone però unicamente un aspetto, il quale indica che la fenomenologia della situazione psichica della vittima è pluriforme. La situazione singola ha un'altra dimensione nella realtà che non l'esperienza collettiva.
Le diverse situazioni nelle quali la vittima può venire a trovarsi variano, d'altra parte, a dipendenza delle condizioni preliminari. Si possono constatare per lo meno due categorie assai diverse fra di loro:
la vittima di un arbitrio prevedibile e
la vittima del caso.
Nella categoria A) vale come condizione preliminare l'arbitrio quale principio, come noi lo conosciamo quando si constata la presenza di un regime dispotico.
Si ha l'impressione che l'arbitrio - in questo caso prevedibile- del regime assoluto trovi la propria legittimazione nell'esistenza del Superiore assoluto. La legittimazione di quest'ultimo, a sua volta, risiede proprio nella sua superiorità, la quale diviene nel contempo anche la causa di un suo inevitabile declino.
Maggiore è il dominio del Superiore assoluto, tanto più legittimo è il dispotismo. Relativizzandosi questo imperativo assoluto, pure la Sua legittimazione viene posta in dubbio.
Ciò risulta confermato dalla curva del successo - ascendente e declinante - dei regimi assoluti, dall'Hitlerismo al fascismo ed al bolscevismo, i quali avevano derivato la loro legittimazione direttamente dall'identificarsi delle masse in un Ego collettivo. Le vittime di questi regimi erano estranee non solo perché indicate come tali, ma anche perché esse stesse erano coscienti della loro estraneità, per la quale avevano per di più anche buone motivazioni. E proprio per la presenza di queste motivazioni il loro rischio era calcolabile. Esse erano infatti coscienti del loro ruolo come vittime. L 'accettazione di questo ruolo accentuava la loro coscienza del proprio valore. Ciò le predestinava al martirio.
La vittima di una causa imprevista non risponde a queste caratteristiche mancando la condizione necessaria della situazione tirannica.
E con ciò siamo arrivati al caso B).
La situazione della persona alla quale viene all'improvviso imposto il ruolo della vittima, è indispensabile per qualificare l'atto terroristico, sia in una situazione di comune delinquenza, che di delitto politico.
Per dimostrare la situazione psichica della vittima ritorno all'esempio dello zoologo aggredito dalla belva. I paragoni che si possono fare con la situazione umana in frangenti analoghi sono parecchi.
Modelli di comportamento di base
Dobbiamo partire dell'esistenza dei modelli di comportamento di base, i quali categorizzano l'essere umano, così che lo stesso si riconosce come singolo appartenente alla stessa specie, e ciò non nel senso morale, ma quale condizione preliminare biopsichica, di cui però fa parte anche la capacità umana di moralizzare.
La paralisi causata dallo spavento dimostra l'esistenza di riflessi dell'istinto di conservazione, i quali, in crisi estreme, entrano automaticamente in funzione. La priorità della conservazione è evidente. Si tratta di funzioni archetipiche, le quali sono legate all'istinto che tende alla salvaguardia delle funzioni elementari e condizionanti della vita stessa.
Tutte queste norme alla base di funzioni archetipiche sono forme primitive, reattive e involontarie, cioè di carattere infantile, a dipendenza del loro rango primitivo.
Così lo svolgimento del sentimento reattivo della vittima reinserisce il desiderio di protezione del bambino, specialmente in caso di sequestro.
Essa fa appello alla compassione, diventa inattiva e ripone la propria fiducia unicamente in un atteggiamento che provoca reazioni di protezione e di cura.
L'inattività mentale può regredire in tale situazione fino alla fase preorale del postpartum.
Quando la regressione dell'autoresponsabilità, fino al punto di un appello alla solidarietà che dovrebbe attivare la protezione, resta senza risposta valida, si risveglia il sentimento di vendetta.
Ne conseguono delusioni, sfiducia e depressioni fino ad una situazione estrema di letargia. Esistendo la possibilità di attivarsi predomina il sentimento di vendetta. La via attiva resta soprattutto aperta alla vittima abbandonata dell'aggressore subito dopo il reato. La vendetta può però svilupparsi in direzioni diverse.
Heinrich von Kleist2 nella sua novella a sfondo storico «Michael Kohlhaas», già nel 1810 ha descritto minuziosamente ed in modo psicologico, come, in seguito alla vittimizzazione, una vendetta possa svilupparsi quando l'ordine pubblico è troppo debole per poter garantire una giustizia riconoscibile.
La sindrome di Michael Kohlhaas (Michael-Kohlhaas-Syndrom) conferma il proprio significato anche nei nostri tempi moderni.
La situazione del diritto nella nostra società, non contempla le reazioni emotive quali le vendette, specialmente quando le stesse implicano una pianificazione relativamente a lunga scadenza.
Ne risulta il sentimento dell'impotenza, e proprio questo sentimento crea quella situazione patologica che conosciamo, sotto il nome di choc a distanza, dal nostro materiale clinico.
Essa è dominata della disperazione di chi si sente isolato.
Possiamo definire questo sentimento d'abbandono, con il conseguente rischio di un ripiegamento su se stessi, con il termine di autismofobia. Questa può anche rivelarsi sotto forma di reazione paradossale, nella quale viene, cambiato il bersaglio all'odio, quando la vittima si identifica cioè con gli aggressori.
L 'identificazione della vittima con gli aggressori.
Per questo fenomeno conosciamo parecchi esempi. Il caso più noto è forse quello di Patricia Hearst, figlia del ricchissimo editore statunitense Hearst. Altri esempi sono constatabili nel dramma dei sequestri aerei di Zerqa nel 1970 e nell'affare dei Molucchesi in Olanda nel 1977.
Inoltre il materiale statistico della "divisione ricerche sul terrorismo" della Rand Corporation di Santa Monica, che contiene i risultati delle ricerche su 47 uomini sequestrati e sopravvissuti (fine aprile 1978) conferma questo fenomeno, chiamiandolo "sindrome di Stoccolma" per il fatto che le ragazze tenute in ostaggio durante una rapina in banca a Stoccolma avevano stabilito ottime relazioni con i loro aggressori.
Analogo può essere pure considerato il fenomeno dei prigionieri russi, i quali combatterono - dopo essere stati fatti prigionieri - con le truppe Hitleriane nella seconda guerra mondiale.
Quando gli aggressori offrono alle vittime da loro sequestrate la possibilità di solidarizzare con loro trovandosi queste in una situazione di costrizione, esse ne fanno abitualmente uso.
Negli articoli delle riviste e degli ambienti pseudoscientifici piace parlare poi di «lavaggio del cervello» subito. Ma sappiamo che si tratta, invece, di esempi tipici del funzionamento degli istinti di conservazione.
La ragione per la quale la vittima s'identifica con la volontà dell'aggressore è da cercare unicamente nel rapporto di potere che si è venuto creando.
Nei casi qui menzionati è evidente che gli aggressori si sono dimostrati più potenti che non l'ambiente protettivo abitualmente garantito dall'ordine pubblico.
In tali situazioni la sequenza psichica segue evidentemente le motivazioni contenute nella legge sul funzionamento dei gruppi tripolari, quali sono state descritte da T .M. Mills3, nel 1954, e da A.F. Henry4 nel 1956, sulla base della sociologia di Georg Simmel5.
L 'azione dell'istinto di conservazione può allora indirizzarsi in due diverse direzioni:
quella della vendetta;
quella della conversione, cioè dell'identificazione con l'aggressore contro l'ordine della società, la quale non ha saputo garantire la protezione richiesta al momento del primo riflesso, provocato della paralisi dello spavento.
La regressione fino a funzioni infantili in questo secondo caso, può ad esempio significare la punizione dell'ambiente familiare troppo debole.
La situazione di terrore ha così un effetto di riorientamento, il quale può essere anche definito rieducazione per mezzo della costrizione.
Effetto educativo
Il drill nell'esercito, ad esempio, si serve di questo meccanismo, per ottenere una solidarizzazione con questa società forzata.
Lo stesso effetto ha, in modo involuto però, anche l'incarceramento punitivo.
Urie Bronfenbernner6 ha studiato i principi dell'educazione in due mondi diversi - negli Stati Uniti e nell'Unione Sovietica - esaminando dei bambini, con questo risultato: l'educazione negli stati di regime assoluto e di ideologia unica tende all'uniformità degli ideali per mezzo di una certa severità. L 'accettazione della concezione statale è in questi casi l'obiettivo dichiarato, che viene anche raggiunto, come possiamo constatare sulla base dell'esempio dell'Unione Sovietica e dei suoi satelliti, come pure nelle due Cine moderne, in modi diversi.
Il risultato è ordine e protezione per tutti, altamente apprezzati. La protezione conta in questi casi non solo nel suo aspetto esteriore, ma anche come un fattore sentito. Protezione significa accordo ritualizzato. Questi riti sono sempre stati punti fissi dell'orientamento mentale e del reciproco riconoscersi.
Tali possibilità dell'orientamento sulla base d'un codice del comportamento sono conosciute soprattutto dai giuristi, perché proprio una di queste possibilità, cioè la legge, sta alla base della loro professione.
Attualmente proprio nelle fasi di sviluppo dell'infanzia mancano questi supporti per la formazione di un obiettivo di vita. La pedagogia moderna nega infatti il loro valore umano. Il risultato è un completo disorientamento, a seguito del quale coloro che non fruiscono di un'educazione sembrano naufraghi in un mare senza rive e isole.
Condizioni simili creano la sensazione di essere abbandonati, soli ed isolati. Proprio in questa desolata situazione d'isolamento si trovano le vittime al momento del reato di cui sono oggetto, e non raramente anche gli aggressori.
Riepilogando:
Pensiamo di dover differenziare le vittime in almeno due categorie:
a vittima dell'arbitrio prevedibile
la vittima del caso,
Alla categoria A) possono essere ricondotte le vittime di regimi politici e quelle appartenenti ad una minoranza discriminata.
Alla categoria B) appartengono per contro le vittime di fatti singoli, cioè del caso.
La differenza è evidente. L'eroismo del martirio è una caratteristica del caso A), mentre che per contro la vittima di un imprevisto avvenimento fatale deve essere considerata nell'ambito del caso B). Particolarmente in questa seconda categoria si ritrovano e sono evidenti gli aspetti della sofferenza ed i riflessi dell'istinto di conservazione, i quali possono essere così compendiati :
l'amnesia psichica parziale. per quanto concerne il momento del dramma dell'aggressione,
il ripiego su funzioni della fase di sviluppo orale e preorale. (Specialmente in caso di sequestro),
l'attivazione dei sentimenti di vendetta. (In particolar modo nel caso in cui la vittima viene abbandonata dall'aggressore subito dopo il reato),
il cambiamento di direzione dell'odio e l'identificazione della vittima coll'aggressore. (Quando si ha, ad esempio, un sequestro politico).
In questo quadro il terrore politico, praticato da minoranze attive, può aver portato storicamente al rovesciamento del regimi al potere, senza tuttavia provocare cambiamenti nei meccanismi sociali di base.
I cambiamenti dì regime ad intervalli brevi negli stati sudamericani ne sono un esempio tipico. Altri stati sembrano più tradizionali, solo a causa degli intervalli più prolungati che intercorrono fra i singoli rovesciamenti dei regimi al governo. Nella sostanza però il loro sviluppo da regime a regime avviene secondo lo stesso principio. La vittima ha sempre li ruolo ignorato di mezzo del quale si serve l'aggressore per raggiungere la meta prefissata. Per il milite ignoto, vittima esemplare nell'ambito della categoria A), si trovano ovunque monumenti. La vittima sconosciuta, riconducibile al caso B) malgrado la sua maggiore importanza, sia in senso numerico come in quello della psicoigiene sociale, è per contro totalmente ignorata.
Possibilità di terapia
Per la terapia delle conseguenze, provocate dall'istinto di conservazione, la teoria della libido secondo la definizione di Freud7 non è applicabile; sono invece validi i meccanismi della egodefens e i criteri dell'organizzazione della persona negli strati del sé, ego e sovraego, i quali forniscono un solido fondamento per la spiegazione e la comprensione della natura umana. La teoria del senso di colpa per il doppio crimine di desiderio, la quale costituisce l'essenza del complesso edipico, non dimostra invece in tale circostanza una sua validità o utilità. Neppure applicabili per la psicoterapia dello choc a distanza, sono le categorie della psicologia individuale di A. Adler8, in quanto non si tratta di compensare un'insufficienza organica o psichica, quando una vittima si sente oggetto della violenza.
Anche i metodi i quali trasferiscono la colpa sulla generazione dei genitori secondo il sistema "ok" di Berne9, non offrono elementi utili per una terapia della vittima del terrore. La situazione problematica della vittima è riferibile per contro al contenuto delle psicoterapie centrate sulla violenza di Hedri10, o quella di liberazione spirituale di Schipkowensky11. Anche le terapie che centrano la loro applicazione sulla responsabilità di una morale comune, come ad esempio la logoterapia di V. Frankl12, o le terapie che offrono la possibilità della razionalizzazione in un concetto filosofico, elaborate da Boss e Condrau13 sulla base della filosofia esistenziale di Heidegger, possono aiutare nella situazione di disperazione della vittima. Le convinzioni religiose, soprattutto delle sette che tendono verso una marcata autodisciplina (oggi chiamata repressiva), servono alla vittima per la ricostruzione del suo «rifugio interno», sulla base del nucleo più personale, attraverso la convinzione di possedere una moralità superiore.
La vittima ha, per lo meno quale riflesso passeggero, come abbiamo visto, la tendenza a ritornare verso una fiducia infantile in una giustizia trascendentale.
La definizione della libido secondo C.G. Jung14 e le categorie di forma e dei dinamismi archetipici, come risultano dal confronto del contenuto dei sogni con le immagini dei miti e delle favole antiche e popolari, offrono una base per poter spiegare il contenuto dei sentimenti, degli impulsi e delle reazioni, istintive per la vittima della violenza casuale.
Nella terapia le due categorie della tipologia psicologica di Michael Balint15, l'oknophilia - cioè il legame col focolare - e la philobatia - cioè il piacere di avventurarsi in azioni rischiose -, si dimostrano utili in modo eccezionale.
L 'oknophilia, come tendenza di regressione, simbolizza la sicurezza che deriva dall'ambiente nel quale la persona trova la propria identità. L'ambiente è in realtà la zona allargata dell'ego, che circonda le condizioni familiari o del gruppo di carattere familiare come parte complessiva dell'ego singolo, cioè come espressione dell'ego sociale.
La philobatia, la «Angstlust» , invece, offre lo spazio necessario per le iniziative personali, che rendono la vita un'avventura, la quale conduce sempre oltre l'ambiente rassicurante, cioè al di là dell'oknophilia.
Nel caso di Patricia Hearst la relazione fra le due categorie si è sviluppata in modo tale, che essa ha regredito sulla base della motivazione oknophilistica fino a solidarizzare col gruppo del quale era rimasta vittima, trovando la sicurezza interazionale in questa sua pseudofamiglia. Sappiamo che in una certa fase limitata di maturazione questi «Bünde», cioè gruppi clandestini, si formano spontaneamente quale primo passo decisivo verso la emancipazione.
Il fenomeno è stato ben studiato e analizzato da Will Erich Peuckert16 nell'opera Geheimkulte (culti secreti) e da L. Knaak17 in Trotz, Protest, Rebellion (ostinazione, protesta, ribellione). ,
Nell'ambito di questa pseudofamiglia, la Hearst - nella sua fase regressiva - ha potuto prendere parte ad azioni terroristiche per soddisfare la sua rabbia, provocata soprattutto dal sentimento di completa impotenza personale di fronte alle azioni di violenza. Si tratta, in questo caso, di azioni di vendetta alla rovescia, cioè contro l'ambiente troppo debole per offrire la necessaria protezione. La spinta philobatica non ha trovato in questa sua situazione un altro campo d'azione.
La sofferenza psichica, (il panico dell'isolamento), della vittima può essere descritta nelle forme seguenti:
fobia di solitudine, come un tipo della claustrofobia,
autismofobia,
ansia di perdita dell'ambiente abituale, il quale è condizione di esistenza.
Una terapia di queste forme dello squilibrio psichico della vittima del terrore deve dunque basarsi sul principio della ricostruzione o restaurazione dell'«equilibrio prestabilito» , il cui concetto e metodo sono sviluppati dall'autore di queste riflessioni in un volume che sarà edito prossimamente.
Il metodo si basa soprattutto su meccanismi d'azione archetipica e sul dinamismo del movimento come espressione psichica, partendo dell'appetenza per la soddisfazione di certi bisogni del sentimento del valore proprio della persona.
L 'identità personale in questo concetto è superiore all'individualità, la quale è solo ipotetica già per la suddivisione degli strati dell'ego a seconda del loro valore, e per l'importanza della relazione col tu, che condiziona largamente la realtà dell'esistenza singola di ogni essere umano.
Bibliografia
1 Edito nella collana di psicologia e criminale, diretta da Guglielmo Gulotta, da Giuffrè editore, Varese, 1980.2 Kleist H. von, Michael Kohlhaas (aus einer alten Chronik). Erzählung, Erstdruck im "Phöbius" Heft 6, Juni 1908, Hansa Verlag, München, 1977.3 MILLS T.M, The Coalition Pattern in the Three-Person Group. in: American Sociology Review, 1954, XIX.4 HENRY F., Affekt, lnteraktion und Delinquenz. in: Kölner Zeìtschrift für Soziologie und Sozialpsychologie, Sonderheft 2, Soziologie der Jugendkriminalität, 1957.5 SIMMEL G., The Triad. The sociology of Georg Simmel. Ed. by Wolff K.H., Glencoe, llIinois, 1920.6 BRONFENBRENNER U., Zwei Welten. Kinder in USA und USSR. Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart, 1972.7 FREUD S., Studienausgabe. Herausgegeben von A. Mitscherlich, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main, 1969.8 ADLER A., Praxis und Theorie der lndividuaipsychologie. München, 1923.9 BERNE E., Spiele der Erwachsenen. Psychologie der menschlichen Beziehung. Rowohlt, Hamburg, 1970. 10 HEDRI A., Psychotherapie ohne Dogmatismus. Musterschmidt, Zürich, 1976. 11 SCHIPKOWENSKY N., Iatrogenie oder befreiende Psychotherapie? Der psychische Einfluss des Arztes auf seinen Patienten. Schwabe & Co., Basel, Stuttgart, 1977.12 FRANKL V.E., Theorie und Therapie der Neurosen. Einführung in die Logotherapie und Existenzanalyse. Reinhardt, München, 1968. 13 BOSS M., CONDRAU O., HICKLIN A., Leiben und Leben. Beiträge zur Psychosomatik und Psychotherapie. Benteli, Bern, 1977.14 JUNG C.G., Symbole der Wandlung. Rascher, Zürich, 1952; JUNG C.G., Das Unbewusste im normalen und kranken Seelenleben. Rascher, Zürich, 1929; JUNG C.G., KERENYI K., Einführung in das Wesen der Mythologie. Das göttliche Kind, das göttliche Mädchen, Rascher, Zürich, 1951.15 BALINT M., Angstlust und Regression. Beitrag zur Typenlehre. Klett, Stuttgart, 1959.16 PEUCKERT W.E., Geheimkulte. CarI Pfeffer, Heidelberg, 1951.17 KNAAK L., Trotz, Protest, Rebellion. Urform und Bedeutung des Nestzerstörungstriebes. Zürich, 1970.





































I silenzi di fronte agli attacchi islamisti
Sindrome di Stoccolma
di Angelo Panebianco

Bisognava aspettare che parlasse Benedetto XVI per sentire le parole ferme e chiare che i timorosi leader politici europei non sanno pronunciare. Il Papa ha deplorato la mancanza di rispetto per i simboli religiosi, ma ha anche dichiarato totalmente inaccettabile la violenza in nome della fede. Confrontate le parole del Papa con l’inerzia delle capitali europee di fronte alla selvaggia violenza scatenata nel mondo islamico col pretesto delle vignette satiriche. Sarebbe questa la «potenza civile», quella che, secondo certi involontari umoristi, avrebbe dovuto, niente meno, «bilanciare» la potenza americana, e imporre la propria autonoma influenza sui destini del mondo? Assalti alle ambasciate europee anche nei Paesi ove niente avviene se i tiranni non lo ordinano, l’uccisione di un sacerdote cattolico, i cristiani trucidati in Nigeria, gli assalti alle chiese in Pakistan, le manifestazioni antioccidentali dette «spontanee», organizzate da religiosi estremisti ovunque. E l’Europa sa solo balbettare «ci vuole il dialogo ».
Quando il regime siriano ordinò l’assalto alle ambasciate danese e norvegese, quando una squadraccia assaltò la sede dell’Unione europea in Palestina, l’Europa non reagì sentendosi colpita tutta, non reagì contro quegli atti di guerra chiarendo che non se ne sarebbero tollerati altri. Ogni giorno che passa l’Europa (come ha scritto Galli della Loggia su questo giornale) trasmette il senso della propria nullità politica e manda un chiaro messaggio a quel vasto mondo fondamentalista, di cui il terrorismo jihadista è l’appendice armata: potete esercitare contro di noi qualunque prepotenza avendo la certezza che noi cederemo. D’accordo, sono fanatici, pericolosissimi, e ci fanno paura. Ma non è mai accaduto nella storia che si subisse la prepotenza altrui senza ricavarne grandi disgrazie.
Non si è sentito neanche un leader europeo di peso, da quando è cominciata l’orchestrata sollevazione contro le vignette, dire al mondo islamico quanto andava detto, ossia che quelle vignette erano di pessimo gusto, ma anche che il cattivo gusto è un prezzo che noi paghiamo per la libertà, e che essi non devono osare mettersi contro le nostre libertà. Non si è sentito un leader europeo, ad esempio, dire ai governanti musulmani che pretendiamo che si dissocino da quei fanatici pronti a pagare a peso d’oro l’assassinio dei disegnatori danesi.
La vicenda italiana è parte di questa latitanza europea. Ha ben detto Magdi Allam sul Corriere di ieri: va bene che Calderoli venga licenziato ma non per ordine di Gheddafi.Ma sia da parte del premier che da parte del suo oppositore Prodi, abbiamo sentito parole di eccessiva comprensione per il tiranno di Tripoli. Somiglia alla sindrome di Stoccolma. La stessa che vediamo in azione nei tribunali che non riescono a colpire i jihadisti (e non si è capito se sono sbagliate le leggi o le prassi giudiziarie). La stessa che dopo l’11 settembre ha spinto tanti a prendersela con Oriana Fallaci piuttosto che con i fondamentalisti (la prima non fa paura, i secondi sì). La stessa che ci fa scandalizzare più per ogni pagliuzza nei nostri occhi che per le travi negli occhi loro. Tenere la schiena dritta quando altri ti scatenano addosso una guerra di civiltà che non avresti mai voluto combattere è difficile. Ma piegare la schiena significa la rovina sicura.
21 febbraio 2006